Luciano Santin sul Premio Cergoly


 
Perché scegliere Carolus L. Cergoly, quale emblema di un premio di studio relativo a queste nostre terre? Perché, tra i tanti che hanno dei meriti, è quello che inquadra meglio un modo di essere “triestino” o “del Litorale” o adirittura “giuliano”. Un modo che è stato negato o criminalizzato per quasi un secolo, ma che in una comunità europea un po’ meno asfittica di quella dell’immediato presente potrebbe ritrovare ragion d’essere.
E’ il caso di soffermarci sui concetti più che sui termini. Quelli sopraccitati vanno presi con le molle (sono – non a caso – tra virgolette), perché nel ’900 sono stati mistificati e stravolti a fini divisivi. Esattamente come è stato falsificato e usato per interessi di parte un altro termine, quello di “patria”. Qui la strumentalizzazione è antica, sistematica, e non riguarda solo noi. Samuel Johnson ha definito il patriottismo l’“ultimo rifugio delle canaglie”(nel 1775, gli anni in cui su Trieste regnava Maria Teresa, della quale finalmente si ricomincia a parlare).
La parola, però, non ha in sé un’accezione negativa. Sta a significare l’appartenenza e l’amore (fattosi, magari, tormentato e contraddittorio), che i triestini hanno sempre nutrito per il loro luogo natio. E che è stato condiviso dai tanti che, venuti a Trieste, l’hanno eletta quale loro dimora del cuore.
«Rimasi, s'intende, a Trieste. Io amo la bella città, il limpido sole triestino, il cielo di Trieste e l'ampio mare azzurro. Nessun altro luogo mi potrebbe essere vera patria», scrive Julius Kugy (un altro che, per triplice radice e Weltanschauung può essere affiancato a Cergoly), parlando della sua scelta dopo il 1918.
Ma Kugy declinava il concetto in termini diversi, anzi opposti a quelli dei nazionalisti, che vivevano valori proprietari invece che di appartenenza.
Herr Doktor trovava profondamente sbagliata la frase “le mie montagne”, perché siamo noi che apparteniamo ad esse. E nello stesso modo - Heimat anziché Vaterland - considerava il Caput Adriae, in cui convivevano figli di una stessa madre, nella loro normale diversità.
«Italiana è la nostra favella / ma con Slavi e Germani viviamo / siam fratelli e per l’Austria giuriamo / che fè grande la nostra città», recita “La Triestina” un inno di centocinquanta e più anni fa. «Ma cessato il periglio ritorna / dove all’opre il commercio ne inviti / Siam diversi per lingue ma uniti / ché una sola è la lingua del cor».
Dunque il termine anazionale non è appropriato (semmai anazionalista, meglio ancora antinazionalista), perché la “nazione triestina” esiste. E’ l’unica possibile qui, diceva Karl von Bruck, che, nativo di Francoforte, si definiva “tedesco fino al midollo”, ma sottolineva come, quando veniva a Trieste, svestisse questa identità per rivestirsi di quella triestina. La doppia appartenenza è stata una ricchezza straordinaria, in una città che sino a cent’anni fa ha metabolizzato e fatto proprie centinaia di migliaia di persone senza chiedere loro rinunce o abiure (pensiamo, in questo senso alla doppia identità di un Joyce o di un Baumbach).
Meglio può andare l’idea di sovranazionalità, o di nationality crossing che si può tradurre con internazionalità, condizione esistita come stato naturale non bisognoso di teorizzazioni, sino a quando questa caratteristica non è stata vista come un male (il primo male, anzi), e non si è voluto mettere in detrazione, invece che in addizione, tutto ciò che italianissimo non era.
Il patriottismo è sentimento positivo, di amore familiare, che il nazionalismo ha nutrito di negatività. Certo, succede che ci siano “fratelli coltelli”, che in famiglia ci si metta gli uni contro gli altri. Ma qui l’istigazione e la semina d’odio sono venute prevalentemente dal di fuori, con i risultati che il secolo breve ha evidenziato.
E’ stata anche conculcata e immeschinita la cultura triestina, quella cultura che, confrontandosi con realtà contigue, ma anche più lontane, e parlando più lingue, era in grado di capire meglio e di interiorizzare il mondo.
La cultura, insomma di Carolus L. Cergoly, che è stato costretto a vivere nel ’900, ma vi si è riconosciuto a fatica, perché apparteneva a un passato più lontano e felice, e, forse, al futuro in cui speriamo: una ripresa di consapevolezza capace di ricondurre Trieste alla sua funzione naturale, facendole, insieme, ritrovare la sua vocazione. 

Con contributi di Alessandro Radmilovich e Paola A. Alzetta. 

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