Triestiner Geschichten: Trieste non è Italia?


Di Josef Wallner e Norbert Eisner.
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Vienna sul mare. La città del caffè e dei poeti. Non posso più sentirli, questi cliché. Per amanti principianti Trieste è la città del vento (grazie ai libri gialli), per gli avanzati la città dei cani, per gli esperti la città delle teste. Il più delle volte con lo sguardo accigliato, esse sono scolpite nella pietra e poste sopra i portali dei palazzi di cittavecchia.
Ma posso raccontarvi qualcosa di più su Trieste? O è da presuntuosi narrare di questa città da temporaneo ospite e tanto meno da turista straniero?
Cosa non ho già letto su Vienna. Meravigliandomi non solo per i testi dei non viennesi (e io sono tra questi). Sì, erano descrizione falsate, così come lo sono anche i miei ritratti di città. Ritratti sbagliati per chi si è fatta propria una città, sia essa Vienna o Trieste. Ma per me le mie descrizioni sono vere, per lo meno nel momento in cui le scrivo. Domani può già essere diverso.
Ora se volete, fatemi compagnia mentre mi accingo a tinteggiare il mio ritratto della città di Trieste. Potrete ritrovare un pezzo della vostra immagine di Trieste o almeno qualche familiarità con essa, questa o quella pennellata potrà confondervi, irritarvi, potrete ritenerla non vera o vi invoglierà a confrontare la vostra immagine con la mia. Però tenete sempre presente che i nostri ritratti rivelano più su di noi che sulle nostre città.
Amo Trieste? Non lo so, forse lo capirò quando avrò scritto tutte le mie storie triestine. Amo il viaggio verso Trieste. Non quello attraverso la Carinzia, lungo il noioso tratto del Pack sulla Südautobahn (autostrada del sud). Appena dopo Arnoldstein, quando inizia la Val Canale ed emergono le ripide cime delle Alpi Giulie, il mio cuore inizia a battere più forte. Com’è bello qui!
E quanto storie da sentire in questa stretta valle tra Tarvisio e la doppia località Pontafel-Pontebba. I tir e le auto dei vacanzieri vengono ben celate nelle tante gallerie, i ciclisti pedalano lungo l’antico tracciato della Pontebbana verso il Canal del Ferro, a me restano le statali, la Val Saisera, Valbruna-Wolfsbach e le altre località della Kanalska Dolina-Valcanale-Kanaltal, di cui non so decidere se le trovo belle o brutte. Di sicuro belli sono i luoghi in Friuli, che inizia appena da Pontebba. Gemona, Venzone, la città di Udine. Ma comunque non mi attirano. Perché è freddo, questo splendore veneziano.

Io viaggio più volentieri lungo l’antica Südbahn, la ferrovia meridionale. Dopo Graz la luce cambia, ancora non è quella del sud, che non troverete neanche a Trieste, ma un accenno del suo sfolgorio già lo percepirete. Vorrei aumentare la pressione sull’acceleratore, raggiungere il confine a Spielfeld, se non fosse per i limiti di velocità a causa delle polveri sottili che mi costringono a un placido tragitto attraverso il Bacino di Graz e l’ampia vallata di Leibnitz.
Finalmente il confine tra la Stiria austriaca e quella slovena è superato. L'aspetto del paesaggio cambia e si tinge di tutte le tonalità del verde; scuro nel Pohorje-Bachern, il chiaro delle Slovenske Gorice-Windische Büheln, quello più deciso dei rilievi di Celje-Cilli con il Tolsti vrh-Dost signore delle colline circostanti, le piante di luppolo intorno a Žalec-Sachsenfeld. Sì, la Bassa
Stiria-Untersteiermark-Stajerska è la mia marca verde. Attraverso la Trojana, che non si merita il nome di passo, giù attraverso lo Črni graben-Schwarzer Graben nel Bacino di Lubiana-Laibacher Becken e di nuovo su, nel Carso, la Carniola interna. Una fascia di territorio bizzarro. Fiumi che vanno e vengono, campi che dopo le piogge invernali si trasformano in giganteschi laghi e sotto il
bianco e poroso calcare si dipana un regno sotterraneo di grotte e cavità. Dopo Postumia-Postojna-Adelsberg il Nanos si prende la scena, una vera montagna dei re, da cui Attila e il longobardo Alboino guardarono verso l’Italia, quando l’Italia non era ancora nemmeno un’espressione geografica. Ma se si eguaglia l’Italia al sud, allora comincia senza dubbio lì dove le pendici del Nanos si perdono nella valle del Vipacco-Vipavska dolina.
Il Nanos scompare dallo specchietto retrovisore, la Carniola si trasforma in Litorale, Sežana e Opicina, le due località “sorelle”, ancora entroterra ma già così inconfondibilmente triestine, pur se oggi con un confine che le divide. Attraverso i due paesi scendeva la strada statale Vienna-Trieste giù verso la città e il porto franco. Era l’arteria vitale che connetteva Trieste con la capitale, prima che nel 1857 la ferrovia meridionale sostituisse i pesanti carri. I cavalli con il loro traino sono scomparsi, le stazioni di posta ci sono ancora, strutture imponenti con massici portali di pietra carsica. Sessana è più abbozzata, un po’ ruvida, Optschina, come anche si scriveva nella vecchia Austria, ha una sottile patina italiana dall’ultimo secolo, anche se quella asburgica si riconosce a occhio nudo. E non solo perché ci sono una Strada per Vienna e una Via
Graz. È l’impianto del luogo, le ville, che potrebbero trovarsi a Mödling o a Pötzleinsdorf o nelle colline alle spalle di Budapest, anche se i giardini non sono curati e gli scuri non vengono tinteggiati da decenni e cedono sulle loro cerniere, sono le recinzioni metalliche dei giardini, forse anche le trattorie come Max, dove viene servita la variante del Litorale dello gnocco di susine, che rendono il predicato asburgico non disputabile.
I triestini italiani mangiano gli gnocchi come primo, cosa che non riuscirò mai a comprendere, gli sloveni come dolce. Dopo anni non ho ancora deciso se il primo posto nella mia personale classifica dei dolci spetti agli gnocchi
di susine nella loro variante boema, oppure a quelli del litorale.

E ancora una volta sono caduto nella trappola dei cliché. Ma sono io ad essermela tesa, dunque la colpa è mia. Ville asburgiche, come quella degli Stock a Sesana, e gnocchi di susine. Come uscire ora da questa impasse? Concedetemi ancora un po’ di tempo e lo capirete qualche paragrafo più avanti. E poi Opicina offre anche un’altra immagine di sé. Ci troviamo adesso in una ben nota gelateria. Ogni fine settimana si riversano qui i vecchi e i giovani triestini. Nella classica atmosfera un po’ fredda dei caffè italiani si sorseggia dello spumante, si beve l’espresso al banco e si può scegliere tra montagne di gelato e dolcissime torte. Come in una qualsiasi altra meta turistica di una qualunque città italiana. E fuori davanti ai tavolini e alle scomode sedie in alluminio sfrecciano gli scooter. Una tipica scena all’italiana, se non fosse per lo spritz triestin –lo spritz bianco – che mi fa precipitare ancora di più nel cliché e diventa il tema del mio primo racconto triestino: Trieste non è Italia!

Trieste non è Italia. Un’affermazione forte. Per rifletterci sopra ci vorrebbe un posto adatto. Che ne dite dell’Obelisco sopra il ciglione carsico?

Allora avanti, andiamo a indagare sull’identità triestina, passando davanti alla fermata del tram, alla Stele di Zinzendorf, rimessa al suo posto nel marzo 2018, alla rotonda semaforizzata che dovrebbe far evitare collisioni tra automobilisti e tram, fino all’Obelisco. Il tram e Zinzendorf.
Non appartengono anche loro al mondo dei cliché? Certo, e chi se non loro? Sì, il tanto decantato tram de Opcina che inizia il suo tragitto da piazza della Caserma. Dovete chiamarla così, piazza Oberdan, se volete entrare nelle grazie degli austriacanti, e se a Oberdan aggiungerete una “k” alla fine, vi sarete guadagnati uno sguardo quasi amorevole. Ma non voglio annoiarvi con
dettagli tecnici, così mi risparmio anch’io di blaterare di funicolari e di binari a scartamento ridotto. Informatevi sulla vostra guida di viaggio o su google, se vi interessa. Io comunque preferisco scendere in città con il più rapido bus, anche se un giorno il tram, in italiano la tranvia di Opicina, dovesse riprendere servizio (ma chiamatelo piuttosto “tram”; lo sapete, no? Trieste non è Italia).
La causa per la quale il tram è ancora fuori gioco, sebbene sia passato così tanto tempo dall’ultimo incidente, è motivo di accessi dibattiti. Qualcuno dice che ciò sia accaduto perché negli ultimi anni l’amministrazione municipale ha investito troppo poche risorse nella manutenzione della linea. Per questo motivo l’ufficio responsabile a Roma avrebbe ritirato la licenza. Mentre secondo il sindaco la colpa ricadrebbe sull’Ente dei lavori pubblici di Venezia, il cui direttore dice che i lavori non potranno continuare finché alcuni problemi di natura tecnica non saranno risolti. Ne sapete qualcosa, vero?

Non fa niente, in un modo o nell’altro arrivo davanti all’Obelisco eretto per celebrare la visita in città di Francesco I. Per prima cosa godiamoci il panorama. La vista spazia dalla Stazione Meridionale, sopra il Porto vecchio abbandonato, al Borgo Teresiano, alle Rive e alla Stazione di Sant’Andrea-Campo Marzio, e poi oltre fino all’Istria. Forse ho fortuna e la Bora ha pulito il cielo.

I nuvoloni scuri si sono dileguati, gli ultimi si assiepano ancora sullo Snežnik-Monte Nevoso-Krainer Schneeberg, ma qui sul Carso il cielo è -a parte un paio di sottili velature bianche-completamente terso. I noci carsici proiettano ombre decise sulle case. Chiara e decisa è anche la luce, come se il cielo avesse spostato il contrasto nella rielaborazione immagini dello smartphone tutto a sinista. Questa è la mia luce. Questa è la mia aria, e mi libera la testa. Spero di
trovare la Bora quando sarò a casa, dice il mio amico triestino che da anni abita a Vienna. Sì, la Bora ti schiarisce il cervello, carica le nostre batterie per i giorni di caldo afoso prossimi ad arrivare. Poi potremo tutti lamentarci, troppo caldo...

La Bora porta le Alpi vicinissime all’Adriatico, facendo risplendere le sue acque di un blu intenso e lasciando che le onde dalla bianca schiuma si infrangano contro il Molo San Carlo. Vi prego, non chiamatelo con il suo nome ufficiale Molo Audace (attenzione al cliché!). Audace, era la nave con cui nel novembre del ’18 gli italiani sbarcarono in città. I triestini li avrebbero accolti con gran
giubilo. Non così tanti quanto si è a lungo creduto. Fotografie ingiallite ci mostrano piuttosto un’atmosfera di sfinimento che di euforia. Non c’è da stupirsi, dopo quella lunga guerra che si era fermata a pochi passi da Trieste. Ciò ovviamente rallegra gli austriacanti. L’addio di Trieste all’Austria. Come fu vissuto questo momento nella, ancora per poco, capitale imperiale? L’allora grande, oggi ormai dimenticato, Raoul Auernheimer scrisse il 5 novembre 1918 sul feuilleton della Neue Freie Presse il suo “Ricordo di Trieste”.
“Che piacevole esperienza era sempre, in viaggio verso Trieste, quando al mattino presto, dopo esser stati sballottati nel vagone di notte e svegliati poco a poco dal dondolio dovuto al procedere del treno sulla massicciata lungo la linea del Carso, si giungeva a Nabresina, e di colpo ci si trovava di fronte il mare.
Là, nella luce opaca del mattino si stagliava una meravigliosa porzione di cielo azzurro e piatto, che nella parte meridionale dell’orizzonte si fondeva con la volta celeste. E solo qualche minuto più tardi, ecco già Trieste risplendere come una perla adagiata sul fondo della sua conchiglia dal bordo ondulato [...] Avvicinandosi al finestrino aperto, l’aria di mare entrava con forza facendo
sventolare la tendina nella cabina come una vela. Ma la brezza portava con sé anche il profumo della primavera, con cui ci si inebriava con piacere. Quel senso di beatitudine dato da una leggera ebbrezza, che abitualmente assaliva noi viaggiatori nordici nel momento in cui entravamo in contatto con il Meridione, faceva battere il cuore di ogni austriaco ancor prima di essere usciti dalla stazione di Trieste. Perché per noi Trieste rappresentava proprio questo: una porta aperta verso Sud.
Una porta aperta che portava diritto in Italia. Il viaggiatore sensibile che ami impossessarsi con lo sguardo di una città straniera o di un paesaggio nuovo, già nelle prime ore della sua permanenza inizia a farsi un’idea della particolarità di questa città, in una Trieste in tempo di pace, dove ogni passo gli ricordava l’Italia. [...] Italiano era il contrasto tra le larghe piazze e le strette vie che dal
porto immediatamente si diramavano a raggiera verso la penombra delle viuzze ricche di profumi. Italiani erano i panni appesi dovunque nei quartieri più poveri, le lunghe facciate delle case ornate con miseri gagliardetti; italiani erano il selciato e, soprattutto, la vita che scorreva per strada con aperta disinvoltura. [...]
Tutto questo è caratteristico, come per ogni altra città italiana, anche per Trieste [...]. C’era anche un’altra Trieste, la Trieste dei ricchi commercianti e degli operai dell’arsenale, la Trieste dei moli che si insinuano nel mare e delle gru che si stagliano nel cielo, la Trieste della selva di comignoli dei vapori, degli alberi e dei pennoni – una città dinamica e operosa che cresceva vorticosamente.
Esiste ancora questa Trieste dopo quattro anni e mezzo di guerra? Se nell’ultimo periodo si chiedeva a un triestino dell’attuale aspetto della città, che non ci si poteva decidere a visitare in guerra perché timorosi per il proprio bel variopinto ricordo, così soleva egli rispondere con un’eloquente alzata di spalle nella cupa teatralità già quasi italiana dei triestini: ‘Un cadavere’ ...
Così crudelmente un’infausta guerra, tra l’altro non per la prima volta, ha colpito la bella città sul mare.
[...] Al termine dell’età napoleonica i triestini avevano avuto la soddisfazione di vedere come i Francesi [...] venivano cannoneggiati. Da quel momento Trieste era [di nuovo, NdA] austriaca, cosa che, come una veloce passeggiata in tempo di pace insegnava, non impediva in alcun modo alla sua specificità italiana di affermarsi e di esprimersi [...]
La città di Trieste, in cui ieri sono entrate le truppe italiane, ha avuto fortune alterne ma il suo particolare destino è e rimane l’essere a sud. Una porta aperta da nord a sud deve rimanere aperta, altrimenti come soglia perde di significato e importanza. Perciò alla lunga anche l’attuale occupazione dei ‘veneziani’ non andrà a cambiare molto. Trieste ha momentaneamente cessato di essere austriaca, ma se per adesso e per il futuro è e resterà veneziana, è un quesito ancora aperto. [...]
Trieste è una città di mare e rimane intrinseco di una tale città il non appartenere del tutto a nessuno perché lei appartiene sempre per metà al mare. [...] chi sa se il viaggiatore dei tempi futuri, guardando verso la di nuovo ricca e opulenta Trieste, appoggiato a una bianca colonna di San Giusto e sfogliando la guida che forse sarà redatta in lingua slovena, non leggerà degli sconvolgimenti del ventesimo secolo come di una fase transitoria”.

Il paesaggio, la città, gli uomini – tutto è Italia. Auernheimer era consapevole che nel passaggio successivo avrebbe scritto del carattere mezzo italiano del triestino? È disorientante. Come ha ragione però nel definire la loro specificità di cupa teatralità. I triestini non hanno l’indole solare del sud. Il loro dialetto, il triestino, è duro. La parlata friulana del Medioevo è stata quasi fagocitata dal veneziano, ed infine con screziature slovene e tedesche è divenuta il triestino.
Come xe? sì, sto bene sentendo questo dialetto. E viene ancora parlato, come la ljubljanščina a Lubiana, anche negli uffici e in luoghi dove si dovrebbe utilizzare la lingua ufficiale. A Trieste e a Lubiana il dialetto non è ancora così denigrato come a Vienna. Ma anche sulla Ljubljanica e sull’Adriatico i nuovi nati parlano esclusivamente l’italiano e lo sloveno. Ma si accresce di novità, portate dai nuovi in città. Le locuzioni comuni di Vienna, Praga e Trieste come Tschik, cica in
triestino, stanno sparendo. Ciò che ci rende simili non sarà più mitteleuropeo ma globale. Va bene così ma peccato, anche se non per la cica in sé.
Torniamo al novembre del 1918, al quattro di quel mese. Che giornata. Finalmente, dopo quattro anni e mezzo, è finita con i morti per l’imperatore, per il re e le varie patrie, delle quali alcune in quel giorno già non esistono più. Come si sarà sentito Raoul Auernheimer, quando alla scrivania nella redazione della Neue Freie Presse o seduto a casa sua iniziò a scrivere il suo feuilleton?
Davanti alla porta si disfaceva un mondo, ma nelle redazioni l’attività continuava come sempre.
Senza nemmeno modificare la grandezza dei caratteri per i titoli. Questo per la Neue Freie Presse non era necessario. Ciononostante la tensione doveva essere percepibile nella redazione della Fichtegasse. Erano sicuramente differenti i sentimenti che questa sgradevole tensione provocava nell’animo dei redattori. Sollievo, liberazione dalla paura, dalla minaccia alla propria vita e a quella di familiari e amici causata dalla guerra, spossatezza per l’alimentazione scarsa e
scadente, che faceva sempre più vacillare il corpo e l’anima, infine l’incertezza per il nuovo. Il mondo austriaco cadeva a pezzi, ogni giorno se ne perdeva un pezzo. Molti se ne rallegravano, a Praga, Brno a Cracovia e soprattutto a Budapest, il Trianon non era neppure una lontana ipotesi per i magiari. Forse Auernheimer sentiva solo un sentimento di vuoto e quel dolore sottile che risiede tra la tristezza e il lutto.

Non era una penna pungente, la sua. Un motto di arguzia gli fece scrivere degli occupanti veneziani anziché italiani. Sono sicuro che questo vi piacerà, cari amici triestini, incrollabili austriacanti. Gli altri non ci faranno caso. Apprezzerete anche l’immagine della ricca Trieste con le sue navi e i comignoli. Vi rafforza anche nella vostra convinzione, che il declino della vostra città abbia avuto inizio in quel novembre del 1918. E qui richiamerete Auernheimer: “Signor
redattore, si è sbagliato, questa ricca Trieste non è mai più esistita”.
Una tale speranza non si è manifestata nemmeno nei giorni dell’euforia nazionalistica condivisa da tutti. Al contrario, i commercianti pragmatici e gli artisti perspicaci, non di rado membri della stessa famiglia, lo sapevano: Trieste ha bisogno dell’Austria, ora definita più prudentemente Mitteleuropa o il Nord. A nessun’altra città lo stemma con l’aquila bicipite si addiceva di più.
Come detto, non si era sciocchi e si è previsto con incredibile precisione cosa sarebbe avvenuto dopo il 1918. I commercianti ci riuscivano anche se allo stesso tempo erano dei poeti.
L’obiettività aveva ancora abbastanza posto negli animi irredentisti dei triestini. Sì, la città si riteneva prosperosa come porto della Mitteleuropa, senza importanza come porto in Italia, lì era solo uno dei tanti.

Ma in Austria l’orbo era re tra i ciechi. E nonostante ciò la prosperosa Trieste con la sua borghesia nazional-liberale ambiva ad appartenere al Regno d’Italia. Una vera aquila bicipite, con una testa che guardava calcolatrice verso nord e l’altra anelante verso sud. È come se gli opulenti edifici nei quartieri benestanti della città volessero ancora ricordare a noi posteri il travaglio interiore loro e degli stessi abitanti. Qui lo Jugendstil viennese gareggiava con il neorinascimento fiorentino. Forse, se una volta ci fosse completo silenzio nella città, si potrebbe sentire come sono ancora in attrito, la vecchia Austria e l’Italia.
Il cuore dei Triestini non era tormentato, batteva per l’Italia, perlomeno nelle cerchie intellettuali. Sì, difficile da credere, da intellettuali si era un tempo nazionalisti! (le davvero poche eccezioni mi perdoneranno quest’affermazione apodittica). Nell’animo era più difficile. Gli avi sloveni si facevano di tanto in tanto sentire e portavano scompiglio nel puro sentimento italiano. Ma questo lo conosciamo già dalla Reichshaupt- e Residenzstadt Wien.
Ma non avevano parola la mente e l’anima, bensì il cuore italiano. E quindi ci si voleva liberare dalla dipendenza, sapendo che la libertà avrebbe significato malessere se non addirittura morte.
Ma forse è anche questo solamente uno dei tanti cliché triestini, che non dà credito ai dati oggettivi, non solo a quelli legati allo sviluppo dell’economia cittadina, ma anche al numero degli italianissimi. Ma chi vuole analizzare questi dati? Troppo seducente è lo spasmo nostalgico da entrambe le parti.
Dopo la guerra si riallacciò presto il filo con il nord, si tentò di intrecciarlo nella trama disordinata degli Stati nati dalla dissoluzione della monarchia. Che non era molto robusta, cosa che non deve meravigliare dati i tempi. Dopo la Seconda guerra mondiale gli austriaci sognavano infatti un corridoio giù fino a quello che un tempo era stato loro. Naturalmente invano.

Auernheimer può essersi ingannato con la futura prosperità di Trieste, o solo aver sbagliato a stabilirne il limite temporale; se la nuova età dell’oro deve ancora iniziare, allora forse può succedere adesso qualcosa, con la trasformazione della città a capitale della scienza e porta dei Balcani occidentali. Con l’eventualità che Trieste potesse mutarsi in Trst, Auernheimer aveva colto la paura di Trieste di diventare una città slava. Per un paio di settimane nel 1945 fu anche così. La paura ci fa commettere azioni terribili. A Trieste appiccarono il fuoco al Narodni dom. Il suo architetto, il grande Max Fabiani, non poté fornire i piani per la ricostruzione. Quasi cent’anni ha vissuto, celebrato e ossequiato prima dagli uni poi dagli altri a seconda del vento che la situazione politica faceva soffiare. Ancora oggi, a più di cinquant’anni dalla sua morte si oppone a qualsiasi tentativo di appropriazione, l’uomo del Carso. Sloveno, italiano, fedelmente al servizio della monarchia, colui al quale riuscì addirittura l’andare d’accordo con Francesco Ferdinando, architetto nella Gorizia fascista, quello che ha lasciato il suo segno nel Litorale devastato da Vipacco a S. Daniele giù fino all’Adriatico. Fascista? Podestà di S. Daniele-Štanjel, al tempo solamente San Daniele del Carso.
Nato quando Venezia era ancora austriaca e morto a Gorizia, quando un reticolato sulla Piazza della Transalpina divideva l’Europa in due. Come può venire in mente di voler inserire una tale figura in una griglia a maglia stretta di appartenenze nazionali. Definiamolo europeo, no, non richiama alla mente nessun’immagine, mitteleuropeo? nemmeno, vorrei e voglio definirlo altrimenti: Altösterreicher, asburgico.

Da dove ha inizio questa paura degli slavi da parte dei triestini, le cui nonne, come voi sapete, molto spesso erano ancora intrinsecamente legate al borgo carsico? Dapprima rimasero disorientati dalla nuova presa di coscienza da parte delle genti del Carso. Prima, fino alla metà del 19. secolo, i sudditi slavi del Litorale cedevano rapidamente all’influsso della Trieste italiana.
Si assimilavano velocemente e, come sappiamo anche dei viennesi di origine boema, si incontravano spesso in prima fila tra i nazionalisti più accesi. Ma Trieste richiamava sempre più persone dal Carso, erano impiegati nei cantieri navali, nelle fabbriche, negli squeri. Questa moltitudine riconosceva in Trieste la propria città, la propria Trst. E come dappertutto nei territori abitati da sloveni, dalla Bassa Stiria alla Carinzia, la Carniola e Gorizia, andava modificandosi anche a Trieste la coscienza di sé della gente slovena. I tanti contadini divennero
cittadini, che sia nelle città sia nel contado reclamavano il pari trattamento con i loro compatrioti tedeschi, friulani e italiani. Gli antichi residenti si sentirono confusi, spaventati e infine minacciati. Volevano rimanere padroni in casa propria, che da tempo però non era più la loro.
Non poteva ognuna delle nazioni ricevere un bell’appartamento in questa casa? In alcuni territori come in Moravia durante la Monarchia ciò è addirittura quasi avvenuto, anche se la casa era stata un po’ danneggiata dalle varie componenti in lotta. Le varie case comuni furono fatte saltare al più tardi nel 1945. Ad essere ricostruite furono spesso solo le facciate. Se si guarda dietro di esse è divenuto tutto davvero monotono.
A Trieste non è finita così male. Anche se ci è andata molto vicino e la facciata di Trieste è piena di cicatrici. Sì, i fascisti costrinsero le persone a rinnegare i loro nomi e cognomi, e non solo quelli dei viventi. Anche dalle tombe dovevano sparire i nomi e le iscrizioni slave. Radmilovič è divenuto Radmillo. Ancora oggi l’Italia rende difficile al signor Radmillo ritornare a essere un signor Radmilovič. Così in profondità si è insinuata la paura. Ma il referto è contraddittorio. Molti
triestini italofoni mandano i figli in scuole dove si studia lo sloveno, esiste una scuola con lingua di insegnamento slovena, ma l’amministrazione municipale fa illuminare i getti della fontana sul colle di Montuzza, la fontana della Scala dei giganti, con il tricolore come ai tempi del fascismo.
(Si diventa presto loro amici, se con i Triestini ci si lamenta di come sia trascurato questo parco così come altri della città. E infine date il colpo di grazia e deplorate lo stato del Parco di Miramar). Ma anche gli sloveni sanno come mettersi in vista, andate a vedere il Teatro sloveno della città.
Qui non è andata poi così male. Nelle osmize, e in questo Trieste è superviennese, tutto va bene.
Lì sentite il triestin stretto, il dolce bisiaco dei dintorni di Monfalcone, lo sloveno del Carso, il carinziano di Villaco, i cui abitanti il fine settimana volentieri abbandonano la cadenza alpina e sempre più, da quando Trieste è diventata chic, adottano quella viennese in tutte le sue nuance.
È uguale come chiamate questo luogo di conviviale socievolezza, se osmiza, oppure osmizza (la forma italianizzata), osmica (in sloveno), Buschenschank (austriaco), Heurigen (viennese), in ogni caso cadrete vittima dell’incantesimo. In caso contrario, stralciate Trieste dai vostri piani di viaggio. Sì, mi concedo questo giudizio apodittico. Perché non lascio correre nulla se si tratta del mio luogo di beatitudine. Sedete su una classica panca da Heurigen, la spugna non ha tolto dal tavolo tutte le tracce di quelli che c’erano stati prima e fate cascare sulla ghiaia le ultime briciole del morbido pane bianco. Gli ultimi aliti di un borino estivo rinfresca il vostro viso ancora arrossato dal bagno di sole in Costa dei barbari. Viene servito vino nero, sì qui sul Carso triestino il rosso si chiama ancora così, come un tempo in tutta la monarchia. Il rosso o črno vino, forse
proprio un teran-terrano, si mesce dalla tipica caraffa da litro nei piccoli bicchieri da un ottavo, di un genere che da noi troverebbe utilizzo piuttosto come portaspazzolino. È fresco e proprio così è adatto a questa serata estiva. Il primo sorso è più lungo di quello che richiederebbero le buone maniere, ma il sale sulle labbra reclama molto liquido, ancora di più se arriva così buono.
No, questo vino non vincerebbe di sicuro premi. Nessun adesivo dorato ornerebbe la sua bottiglia, ammesso che fosse versato in una – e se proprio, sono non di rado ancora quelle di plastica, in cui prima c’era l’acqua frizzante o naturale. Ciò non ne cambia niente nel gusto. Le nostre emozioni ingannano le papille gustative e il cervello. Il piacere lo traiamo da ciò che ci circonda e dalle persone con le quali beviamo. E così il rosso o la bianca Vitovska oppure lo Špricer non sono buoni in nessun altro posto come in osmiza. Se solo non avessi di nuovo dimenticato di ordinare bicchieri extra per l’acqua, perché coi bicchieri si risparmia volentieri a Medeazza, Prepotto, Contovello o Piščanci. In quest’ultima mi privo delle libagioni di vino, essendo io il mio chaffeur, perché per la strada su verso il paese sono troppo poco triestino per affrontarla senza che mi saltino i nervi.

Rimarrei molto volentieri seduto con voi in osmiza, con affettato misto o Narezek -gli sloveni e gli italiani chiamano il piatto misto ancora affettato come da noi fino a una generazione fa- di pršut e sir, si mangia con gli stuzzicadenti direttamente dalla carta oleata, un po’ di sottoli e sottaceti fatti in casa e naturalmente ovi duri. Che nelle vere osmize si trovano, come nelle osterie austriache della mia infanzia, sul bancone. Ma anche in osmiza il tempo non resta immobile. Oltre allo strudel di mele si trova ormai anche quello di skuta, cioè ricotta o Topfen, e meravigliose pesche, le migliori quelle della valle della Branica, e se avete fortuna anche palačinke. Forse dopo una o due caraffe di vino cominceremmo a cantare con gli amici triestini e voi rimarreste stupiti dal fatto che qualche canzone viennese venga cantata anche in triestino. „Mei Vota woar a Schneida und a Schneida bin i...“. A dir la verità sono ormai poche, e queste poche possono essere cantate ormai da pochissimi triestini. Ma ci sono ancora. Per l’accordatura vi consiglio il cd “Cantade de ostaria”. Lo potete trovare nel negozio di dischi in Via Diaz. Nel più grande mercatino dell’antiquariato del Litorale, quello di Gradisca che si tiene ogni terza
domenica del mese, il mio triestino preferito, tra i tanti che mi sono cari, e io ci siamo resi felici a vicenda. Lui aveva comprato per me un vecchio libro di canzoni triestine e io uno non meno antico con canzoni viennesi per lui. Abbiamo poi trascorso un pomeriggio molto divertente nella mia trattoria carsica preferita a Rupinpiccolo-Mali Repen.

Vi presenterò adesso meglio il mio migliore amico triestino. A dire il vero ne ho due, quasi una galina con do teste, come l’aquila bicipite, cioè l’aquila imperiale, viene chiamata a Trieste. In italiano dovreste raddoppiare la "l" di galina. Ma siamo a Trieste. Qua le doppie non sono amate.
Una testa della mia gallina bicefala appartiene al triestino canterino che voi già conoscete. L’altra al triestino viennese, che ha lasciato la sua città sul mare circa una dozzina di anni fa per dedicarsi allo studio della storia dell’architettura mitteleuropea nella nostra vecchia capitale, così come alcuni abitanti della Carniola e del Litorale chiamano ancora la metropoli sul Danubio.
Il mio triestino triestino è un vero triestino: di altezza media, scuro di capelli e delicato, molto agile e forse un po’ chiassoso. Mi credete? No? Bene, vi volevo prendere un po’ in giro. Il mio vero triestino ha una madre italiana, la cui famiglia più di settant’anni fa ha dovuto lasciare l’Istria occidentale, mentre suo padre è un triestino di lingua slovena della periferia della città.
Non domandatemi se viene da questo o dall’altro lato del confine. Non è importante. Il mio amico è cresciuto a Servola, il borgo triestino sulla collina oggi attraversata dalla galleria. Siete passati sotto il colle di Servola-Ščedna, Škedenj in sloveno aulico, se da Trieste volevate raggiungere l’Istria, sia che fosse solo Muggia o Punta Sottile-Tanki rtič presso il Lazzaretto o Punta Grossa-
Debeli rtič per fare il bagno. Forse vi è saltato agli occhi l’alto campanile di Servola. A me piace la piazza davanti la chiesa e le semplici case suburbane dipinte di giallo, che non lasciano presumere che qui fino a poco tempo fa fumavano gli altiforni.

La sua madrelingua è quella del padre, lo sloveno, ma nella quotidianità parla principalmente triestino e italiano, quando proprio è necessario. Parla l’inglese altrettanto bene come il tedesco e in altre lingue non è da meno. Lo invidio. E mi consolo o tento almeno di farlo, dicendomi che la sua competenza linguistica ha a che fare con le sue origine slovene. Non sarà politicamente corretto se vi dico che gli sloveni hanno un gene per le lingue, ma per la mia esperienza è così.
Forse non ve l’avrei detto se lo stesso non fosse già stato stabilito in una guida di viaggio degli anni ’80 dell’Ottocento. Deve dipendere dalla circoscritta regione linguistica degli sloveni, in più confinante con quelle italiana e tedesca che per secoli sono state le lingue dei signori in territorio sloveno. La lingua slovena ha iniziato a svilupparsi appena dal tardo Settecento. Prima la lingua era definita rispettivamente Krainisch o Windisch, soprattutto nella Bassa Stiria e nell’Alta
Carniola contaminata da locuzioni prese dal tedesco e austriacismi. Il carniolino nel Litorale era influenzato fortemente dal veneziano e italiano, così come il triestino presenta molte parole prese a prestito dalle lingue slave. La piccola Slovenia era, ed è pur con una tendenza a ridursi tuttora, una terra dei dialetti. Soprattutto l’intonazione può variare da valle a valle. E, credetemi, sceglierete sempre quella sbagliata. Forse per questo in Jugoslavia prima e in Slovenia ora era importante per la politica scolastica l’insegnamento dello sloveno accreditato. Il tedesco e l’austriaco dovevano sparire dalla parlata quotidiana, poi nella Slovenia indipendente erano le locuzioni serbe e croate a dare fastidio. L’impresa non ha avuto del tutto successo, grazie a Dio.
Anche la creazione di vocaboli sloveni propri non ha funzionato molto bene. Ad oggi non c’è nessuno che li usi. La frizione rimane Kuplung (Kupplung in tedesco) e la spatola Špochtl (Spachtel). Al camposanto si è nel Brithof (Friedhof) e non nel Pokopališče. Non guadagnereste molti punti se nell’Alta Carniola ordinaste una Kremna rezina. Rimanete piuttosto sulla Kremšnite (Cremeschnitte).

Il mio amico non solo parla molte lingue, esse sono anche il suo hobby e la sua passione. E può davvero arrabbiarsi, se il cameriere sulle Rive, non trovando a tarda sera in città qualcos’altro di aperto per mangiare se non le pizzerie (che altrimenti nel nostro snobismo neanche prenderemmo in considerazione), non capisce il suo triestino. Ma trovate a Trieste un cameriere triestino! Prima ancora che le pizze siano sul tavolo, si va subito al sodo. Abbiamo terminato la
diatriba sul triestino e l’italiano finendo il cesto del pane, è stata una lunga giornata. Ora siamo già arrivati alle forme temporali. E il mio amico riesce a coniugare la sua passione per le lingue con un’altra delle sue passioni: l’Austria. Se conoscessi bene la sua città come lui il mio Paese natio, potrei riempire volumi su Trieste. Niente paura, non succederà. Perché lui conosce tutti i comuni catastali del mio luogo natale nella Bassa Austria, non raggiungerò mai questo livello nel Litorale. Dalla sua intima conoscenza dell’Austria sa che in tedesco austriaco il passato prossimo è (ancora) preferito al passato remoto. E vedete, questo contraddistingue anche Trieste, in contrasto con il resto dello stivale. (Visto che siamo in tema: un amico di Bratislava mi ha recentemente raccontato che lo slovacco bratislavese somiglia molto al viennese per il modo in cui viene parlato). Il mio amico triestino viennese d’altra parte mi racconta che il resto d’Italia definisce bagno alla triestina, quando il gabinetto e la sala da bagno occupano due ambienti distinti. La suddivisione degli spazi nelle case d’affitto della Trieste asburgica e in quelle viennesi è pressoché identica. (In triestino bagno significa oltretutto anche bagno di mare, quindi ancora una volta qualcosa di asburgico...).
Adesso mi sento un po’ come quell’attore che in una scena non sa più come fare ad abbassare il suo braccio sinistro sollevato: come torno dall’igiene a parlare di nuovo di Trieste? Un taglio brusco è di sicuro la cosa migliore (e più semplice). Ma no. Però funziona: taglio brusco – idioma diretto. Perché la lingua della città, ve l’ho detto, non è morbida o dolce. È dura. Nelle strade di Trieste sentirete ciau non ciaooo. Forse la città starebbe meglio traslata in Nord Europa, come una città anseatica, protestante e freddamente calcolatrice. I commercianti preferiscono una lingua chiara, minimale. In questo non vi è niente di confuso, slavato... viennese.

Quindi non una Vienna sul mare? Sì, il palazzo del Lloyd di Heinrich Ferstel potrebbe essere a Vienna, d’altronde sembra l’ala del cancellierato della Hofburg, ma a me ricorda di più, quando l’ultimo sole bagna le sue pietre chiare con morbida luce, il palazzo della confindustria di Karl König sulla Schwarzenbergplatz. I magniloquenti palazzi eclettici del borgo teresiano per me
non hanno molto di viennese, mi fanno piuttosto pensare all’Italia e a Parigi – e a Budapest, nel suo tentativo di superare la vecchia Vienna. Non è stato mai ammesso volentieri, la seconda capitale voleva vedersi piuttosto come emula di Parigi, ma alla fine si trattava sempre e solo di Vienna.
E le persone, sono anche dure? Hanno una dura corazza, nei confronti dei turisti sono più gentili. Più gentili in assoluto sono con i loro cani, soprattutto le signore triestine. E qua anche l’operaia in pensione, quando incontra le amiche in piazza Goldoni per un caffè, è una signora. Sempre perfettamente acconciate, con il cane da compagnia al guinzaglio corto sulle ginocchia, blusa fiorata e scarpe aperte visibilmente comode, sono sempre una parte da me molto apprezzata di Trieste. Mi ricordano le mie nonne. Ma ad inveire come le triestine riusciva solo una delle due.
Le ho sempre trovate di buon umore, le signore sull’Adriatico. Una conoscente goriziana che vive a Vienna mi ha però contraddetto accaloratamente. La sua prima impressione di Vienna erano i visi torvi sul tram, “che sembrano quelli dei vecchi che salgono in bus su a Servola”, e così si è subito sentita a casa a Vienna. C’è quindi qualcosa di viennese, austriaco nell’anima di questa città?
Ma quale Austria? Ogni Austriaco ha la propria. Otto milioni di Austrie. E in più l’immagine dell’Austria dei non Austriaci, soprattutto dei “miei” Triestini. Per molti di loro lo stato alpino è un luogo di nostalgia. Si comprano i Trachten o i Lederhosen, di birra se n’è sempre bevuta molta a Trieste, e lodano in maniera esagerata il piccolo stato grazioso ed effettivamente ordinato.
Evidentemente associano nella loro immaginazione la vecchia Austria con quella di oggi. Entrambe sono luoghi della nostalgia. Di quella vecchia, perché la città era grande ed economicamente prospera -ma che i Triestini allora addirittura boicottassero i prodotti del resto dell’Austria, non lo si vuole sentire- e l’amministrazione funzionava. E quest’ultimo aspetto viene attribuito dai Triestini anche alla repubblica alpina (e se osservato in paragone alla città
adriatica, non li contraddirò).
Ma sull’Adriatico ci sono anche molte cose che non comprendo. Una considerazione totalmente acritica, basata su scarsa erudizione della persona dell’imperatore Francesco Giuseppe (l’ultimo imperatore, Carlo, è oggetto di poche attenzioni) ben si armonizza con la vicinanza a personaggi della politica populista e nazionalista, non solo quella in Italia ma anche quella austriaca. Un
governatore della Carinzia era molto amato. Avrebbe fatto piacere al “nostro Imperatore”?

Il buon ricordo del suo impero che ora vi è nella città lo avrebbe rallegrato e un po’ meravigliato. Solo ora Trieste si fregia giustamente del titolo onorifico di urbs fidelissima. La buona fama poggia sull’illusione che la gente sarebbe stata meglio in un altro stato. Persone così si incontrano in regioni che nel passato e nel presente sono appartenute a stati diversi. Ciò regala alla generale nostalgia per i bei tempi andati, e questo è per gli euroscettici il dopoguerra ancora
definito dagli stati nazionali, un ulteriore sentore di seduzione.
Naturalmente è un imbroglio. Per alcuni dei miei amici triestini ho più volte desiderato che vivessero solo un giorno nel passato. Si augurerebbero subito di ritornare nel presente. Anche come parte dell’Austria odierna, pure questo per un paio di abitanti della città portuale un bell’immaginario, non sarebbero felici. Al vecchio signore di Schönbrunn, che spesso nelle grandi cose sbagliò, ma che nella quotidianità invece si destreggiava bene, se non addirittura saggiamente, avrebbe fatto piacere che un gruppo di triestini portasse avanti con dedizione la
buona tradizione sovranazionale e plurilinguistica della vecchia Austria. Si tratta del Club Touristi Triestini, il vecchio touring club triestino dei tempi della monarchia, che da un paio d’anni è stato rifondato. Su iniziativa del primo club fu fatta costruire la vedetta per il giubileo di Francesco Giuseppe sul ciglione carsico. I fascisti avevano sottratto la vedetta al club e l’avevano rinominata vedetta Italia. Oggi giace in rovina.

Il nuovo club organizza non solamente escursioni, come il suo nome lascia supporre, ma anche simposi, mostre e tiene in alto la bandiera in giornate come il genetliaco di Maria Teresa oppure il 30 settembre il vessillo rosso-bianco-rosso con i vecchi colori triestini. In quel giorno di settembre dell’anno 1382 vi fu l’atto di dedizione della città agli Asburgo, come ancora si usa dire a Trieste, e non mi riesce proprio di convincere i miei amici triestini ad utilizzare un'altra
parola per la commemorazione annuale. A ciò si legava anche una regalia annuale di vino, che la città doveva dare al signore sotto cui si era posta in protezione (così si dice correttamente, cari amici). Sollecito e ostinato come il presidente del club sa essere, gli è riuscito di far rivivere questa tradizione. E così la città di Graz, quasi ancora nel suo ruolo di capoluogo dell’ex Austria
Interiore, si può rallegrare di una cospicua dote di vino. Il club lanciò anche l’idea di intitolare il Canal grande a Maria Teresa. In prima battuta fu inaugurata una targa sulla parete del canale. Questa però dopo un paio di giorni era sparita. Curiosamente la pur molto italiana Unione degli istriani e dalmati si è fatta portavoce dell’erezione di un monumento alla sovrana. Nel frattempo
si è decisa con una votazione la realizzazione di un monumento a forma di tallero teresiano. E questo andrà ad adornare la sua parte della città, il borgo teresiano. Non tutti troveranno la scultura un abbellimento, ma si sa i gusti sono diversi. Questo è il caso anche del monumento pensato per Bratislava. A Lubiana ci si è messi d’accordo per lo meno di dedicare una piazza alla
sovrana. In questo caso non è necessario litigare su eventuali qualità artistiche.

Sì mi piacciono i soci e le socie di questo club, che a ogni escursione portano con sé la loro bandiera rosso-bianco-rossa. Mi piacciono anche perché dal punto di vista di un austriaco di oggi possiedono molto charme italiano, anche se questo non se lo vogliono proprio sentir dire. Ma la baldoria che si crea durante ogni festa, che viene sempre organizzata in una trattoria carsolina in Slovenia e dove si ordinano sempre Ljubljanska (cordon bleu con prosciutto crudo) e Dunajska, cioè la Wiener Schnitzel, è proprio molto italiana. Oppure effettivamente solo triestina? Ma in essa si cela certamente qualcosa di italiano...
Mi piace di meno o, meglio detto, non comprendo il movimento del Territorio libero di Trieste. I loro slogan si possono leggere già da distante sulla casa di Max Fabiani in Piazza della Borsa. La città-stato. L’illusione di una città-stato di Trieste divampa di quando in quando, un Litorale in piccolo. Dietro questa illusione non c’è un gruppo compatto, bensì persone con opinioni e atteggiamenti molto diversi, da italianissimi davvero a destra fino ad alcuni austriacanti. Tutti si riuniscono sotto l’alabarda di San Sergio, il patrono triestino. Per loro l’Europa è troppo grande,per dover anelare al piccolo, al facilmente governabile? Ma non c’entra tanto l’Europa quanto l’Italia. A lei viene imputato tutto quello che non va nella città immediata di Trieste e al suo
territorio, come si chiamava ufficialmente la città durante la monarchia. In queste considerazioni ci sarà anche qualcosa di vero, come la burocrazia elefantiaca e non proprio vicina al cittadino e come lo stato male amministri, neanche una città indipendente renderebbe però felici i triestini.

Lo ammetto, è davvero divertente quando sulla Strada costiera le indicazioni stradale vicino alla scritta Venezia hanno un adesivo -simile a quello che si aveva sulla parte posteriore delle automobili prima dell’Europa- con la I di Italia. Ciò sta a significare che lì si va in direzione dell’Italia. Sì, per certi triestini l’Italia comincia ancora appena a ovest di Monfalcone (per quanto i veneziani abbiano iniziato a scoprire anche loro un cuore asburgico, sebbene in Veneto ci
fossimo comportati tutt’altro che assennatamente). Ma ricercare la soluzione nella parentesi dello stato libero degli anni 1940 e 1950, il cui effettivo margine di manovra era molto limitato?

Esiste una sorta di propaggine del movimento, l’associazione della Libera Trieste – Austria –Società austriaco-triestina. Nel sito web si legge: “un’organizzazione che si adopera per gli interessi dell’Austria nel Territorio libero di Trieste. L’Associazione si impegna per il rispetto delle delibere del Trattato di pace di Parigi del 1947 e l’applicazione della risoluzione n. 16
dell’ONU per la zona A (Trieste e il suo retroterra), così come per l’utilizzo del Porto franco di Trieste da parte dell’Austria come partner paritario, nelle intenzioni della commissione internazionale prevista nei trattati. Il movimento Trieste libera-Austria è stato fondato a Vienna nel novembre del 2014”. Alcuni anni fa l’associazione ha organizzato una dimostrazione a Vienna. I partecipanti in prima fila reggevano lo slogan “Il nostro porto è il vostro porto”.

Cavillo legislativo su cui insistono entrambi i gruppi è che la zona A del Territorio libero nel 1954 fosse stata solo data in amministrazione all’Italia, ma che il territorio non fosse sottoposto alla sovranità italiana. Secondo il corriere borsistico austriaco due ministeri italiani avrebbero confermato il 13 luglio 2017 lo status di Trieste quale territorio di amministrazione fiduciaria dell’ONU. Potrà questo avere conseguenze rilevanti per Trieste? Si vedrà. Attualmente questo
tema è terreno di giochi per giuristi azzeccagarbugli e per i movimenti separatisti. Al momento nel mondo tutto è possibile, ma a pro di chi?
Chi sarebbe poi colpevole di tutto, se Trieste non fosse più in Italia? Non chiederti cosa il tuo paese fa per te – domandati cosa non fa. Devo esordire così con i miei amici triestini su in Carso, quando sediamo davanti a del črno vino?
Ma evito accuratamente la politica. Resto sul nostalgico e questo può davvero essere seducente, anche se magari non particolarmente ponderato – però fa piacere all’austriaco che il vecchio impero qui abbia ancora una così buona nomea. Se davvero meritata? In molte cose penso di sì.

Meglio non porsi troppe domande sui motivi di questo sentimento nostalgico, ho deciso. Un po’ di sorpresa, un lieve sorriso e un po’ di distacco, questo è il mio approccio quando mi reco in una sagra dal titolo W l’A, sagra e po’ bon. “Viva l’A e po’ bon – viva l’Austria e tutto va bene”. L’antico motivetto è l’inno segreto degli austriacanti.
La galina con do teste
mi la go vista svolazar
sora i copi de Trieste
l’alabarda sventolar.
Qua se magna, qua se bevi
qua se vivi in abondanza
pasta e ceci no ne manca
e viva l’A e po’ bon...
L’A è un gioco di parole, perché viene pronunciata come l’articolo femminile “la”. E in questo modo si poteva brindare all’Austria in maniera apparentemente innocua.

I nuovi social-media hanno dato nuova linfa ai sentimenti nostalgici. Su facebook la Trieste austriaca è quasi risorta. In diversi gruppi trovate tutto ciò che il vostro cuore nostalgico o interessato alla storia desidera, da vecchie cartoline a carte territoriali fino ad aspre discussioni sulle vecchia e l’odierna Trieste. Ammetto: di non pochi di questi gruppi sono anch’io un membro. E mi vergogno un po’ che i triestini partecipino alla Mitteleuropa -qui a Trieste e in Italia il termine è ancora politicamente corretto- molto più di quanto facciano i miei conterranei.
Soprattutto a Vienna non può succedere la minima cazzata (perdonerete) che non venga subito riportata a Trieste dal Piccolo. Chi si sarebbe immaginato cent’anni fa che questo giornale potesse scrivere qualcosa di positivo sulla Mitteleuropa. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria-Ungheria gli austriacanti devastarono la sua redazione così come il San Marco appena inaugurato nel 1914, il più bel caffè “viennese” della città e ciononostante – come poteva essere altrimenti a Trieste – ritrovo degli irredentisti. Oggi qui si coltiva, come potete sicuramente immaginare, la Mitteleuropa (e da quando una parte del locale è stata allestita a libreria, il caffè è anche rifiorito).
Certo, l’interesse per la Mitteleuropa scaturisce dalla nostalgia, ma favorisce la consapevolezza di tutto ciò che ancora ci unisce dall’Ucraina occidentale alla Boemia fino all’Adriatico, dal cibo, ai non pochi modi di dire e penso anche fino a una certa mentalità asburgica, che a seconda dei gusti viene percepita come più o meno simpatica. Essa traccia tuttora un confine invisibile nei luoghi in cui una volta regioni dell’Austria, dell’Ungheria e di altri Paesi erano insieme. Pensate alla Transilvania in Romania, alla Voivodina in Serbia e a cos’altro se non al Litorale, e qui soprattutto al territorio di Gorizia e a Trieste. Questo antico confine diventa del tutto visibile se si considera da vicino il comportamento elettorale della gente. Andate a vedervi i risultati regionali nelle ultime elezioni presidenziali in Romania...
I triestini non guardano solo verso la Mitteleuropa, essi si sentono, mi arrischio ad affermare molto più degli austriaci, mitteleuropei in una città mitteleuropea. E di nuovo un cliché, uno di quelli che la città ama e sa vendere bene: Trieste – la città mitteleuropea! Ma non si tratta solo di profitto, in tanti questo sentimento mitteleuropeo è radicato in fondo al cuore, così come la nostalgia verso quella Mitteleuropa che non si può mai del tutto raggiungere, perché è un luogo idealizzato. Era Trieste una città mitteleuropea e lo è ancora? Non sono sempre andati d’accordo, l’italiano con il friulano, l’austriaco, il tedesco, lo sloveno ma anche il croato e il serbo, il greco e il levantino e non ultimo l’ebreo. Nonostante ciò non potevano fare a meno gli uni degli altri. Forse è questo l’elemento mitteleuropeo? Si era comunque arrivati molto spesso vicini a qualcosa che oggi definiremmo integrazione.

La convivenza con i nuovi concittadini (e viceversa) viene considerata dai triestini più faticosa?
Non lo so. Nel tempo in città sono arrivati immigrati da altre regioni: moltissimi dall’Italia meridionale, tanti da regioni dell’Europa sudorientale, hanno trasformato il quartiere presso Piazza Garibaldi in una sorta di piccoli Balcani, africani presenti nel panorama cittadino da decenni come venditore di tutto il possibile, e adesso siriani e afgani.
Quello che so è che, proprio adesso dove in città ci si ricorda e si scrive sulla Mitteleuropa, la componente mitteleuropea svanisce a vista d’occhio dalla mentalità triestina. Sì cari triestini che non vi sentite italiani, la vostra città diventa sempre più italiana – e internazionale. Forse questi sviluppi tra loro discordanti non sono poi così inusuali per le vecchie città mitteleuropee. Gli
ultimi resti del misc-masc autoctono, pur spesso un tempo separati in superficie tra “misc” e“masc”, cedono ineluttabilmente di fronte al prevalere dell’elemento nazionale e contemporaneamente le città diventano più miste. Solo riusciranno le molte marezzature colorate a diventare un giorno un mix affascinante insieme a ciò che è già presente? Nella lingua asburgica si potrebbe parlare di un gustoso Grenadir marš, che viene cucinato da nord a sud e da est a ovest della vecchia monarchia?
Tuttavia: sono un po’ stizzito se i miei amici austriaci raccontano che scendono a Trieste il weekend “per un po’ di atmosfera italiana”. Non vi potete allora scegliere un’altra città? Bervi l’aperol e mangiare il vostro branzino da un’altra parte? E comprare altrove i vostri vestiti? E soprattutto: ricordate una buona volta che qui bisogna ordinare un caffelatte se a tutti costi volete un cappuccino. Non prendete l’anima alla mia città. La mia Trieste è l’osmiza con il cane pingue che in un giorno si fa fuori tanto prosciutto quanto io in un anno, la modesta trattoria carsica con l’ostessa che ti guarda in cagnesco e per ogni ordinazione di insalata esce a prenderla dall’orto, il mio buffet foderato di legno e alla parete il calendario dei calciatori di chissà quale anno, la via Rossetti che separa la Trieste borghese da quella operaia, il parco di Villa Engelmann, la gloriette di Villa Sartorio in Strada di Fiume, il capo in bi e la goccia o in italiano gocciato, un espresso con una goccia di latte. Un gocciato l’abbiamo anche noi in Bassa Austria, però si tratta di vino con una goccia d’acqua...

Un momento. È giunto il tempo di adempiere ai miei doveri triestini. E cosa faccio io subito quando arrivo in città? Mi dirigo in Piazza Grande e bevo uno spritz, magari perfino con Aperol e mi rallegro delle leccornie che vengono servite con l’aperitivo. Ma proprio con lo spritz mi pongo direttamente nella trappola dei cliché: perché lo spriz italiano e lo spritz triestino hanno un
origine austriaca e non italiana, semmai veneziana. I soldati austriaci quando dovevano tenere i veneziani in scacco mescolavano come a casa loro a Vienna, nella Wachau o in Moravia meridionale il vino con l’acqua. I veneziani li imitarono presto, non è sempre necessario stimare le persone di cui si introiettano le abitudini. E così era nato lo spritz veneziano che presto
avrebbe preso la strada verso Trieste anch’essa austriaca. Lì si sono sviluppate diverse varianti, ma lo spritz preferito dai triestini, lo spritz triestin, è e resta bianco.
Al momento però in piazza mi sento un po’ spaesato. Prima sedevo sempre nel Caffè Piazza grande, ma lì l’atmosfera è cambiata. “Perché non agli Specchi?” chiederete? Solo in inverno, in una domenica di sole, verso mezzogiorno. Sapete, le abitudini. Per questo non viene preso in considerazione nessun altro locale sulla piazza. E allora la scelta va all’Urbanis sull’angolo. E questo si concilia con le abitudini? No, ma da qualche parte bisogna pure andare. Non preoccupatevi, con questo vorrei già quasi finire il mio nuovo tour culinario. Non vi dò suggerimenti e non vi annoio con le mie preferenze. Che vantaggio ne avreste? I miei gusti e i vostri probabilmente sono diversi. (Alla fine voi amate ancora quei melensi dolci tipici come il presnitz). Non resto a lungo nel tratto consueto tra Piazza Grande, che per breve tempo si chiamò anche Piazza Francesco Giuseppe, e Piazza della Borsa. Ho voglia di quiete, verso la città vecchia e lì dapprima per una tartina di pesce, la migliore della città, e un fresco calicetto di tocai (che nel frattempo a Trieste si è mutato in “friulano”) in Via Cavana. Adesso però è davvero tutto per quanto riguarda il bere e il mangiare. Se volete, andate pure in un ristorante di lusso dove vi si guarderà dall’alto in basso se non sarete pronti a lasciare una parte considerevole del vostro stipendio mensile.

Lì non mi troverete, piuttosto da qualche parte tra l’Ospedale maggiore, il rinnovato mercato coperto, che al momento è amato apparentemente più dai colombi che dalle persone, e Bariera Vecia. In italiano dovrete nuovamente raddoppiare le consonanti. Qui presso la vecchia barriera correva il confine daziario della città (esiste anche una Barriera Nuova ma nessuna la chiama
così). Eccomi nel mio buffet. È un locale d’angolo, col pavimento piastrellato, tavoli semplici e le, per Trieste, tipiche massicce sedie di legno. Alla parete foderata di legno è appeso un calendario, naturalmente con antiche vedute di Trieste. Sul bancone il Piccolo. E dietro il “paron”, mentre nella cucina sua moglie spignatta. Sono una coppia attempata, anzi direi anziana, ma spedita e
affaccendata come una molto più giovane. Per il bere la decisione è presto presa, un calice di Ribolla e acqua di spina (se nel resto d’Italia non volete morire di sete, non ordinate così l’acqua di rubinetto). Ma per il mangiare? Non vorrei niente di fritto, polpette e nemmeno suino. Per fortuna è venerdì e c’è il baccalà. Il resto della settimana mangio sarde in savor.
Nel mio quartiere si spingono raramente i turisti dell’estate. Per i più il limite è da Coin (i viennesi usano dire Còin e non Coìn), la ex filiale triestina dei grandi magazzini Oehler. Arrivano se piove. Allora si preparano, lasciano Grado e scendono in città. Austriaci, cechi, slovacchi, ungheresi. Per tutti ex-sudditi dell’impero Trieste è ancora il loro porto (ok, gli ungheresi hanno anche Fiume-Rijeka). Gli sloveni, i croati e i serbi sono sempre venuti e da quando esiste il
Commissario Laurenti arrivano anche i tedeschi. Ogni mandata in onda diventa occasione di ilarità per i miei triestini. Dove sarebbe questa Trieste che viene mostrata? Ma sapete, le immagini di una città possono essere le più differenti. I principianti a Trieste arrivano dall’autostrada, gli avanzati dalla Strada costiera e gli habitué dal Carso, poiché temono che da Barcola alla città ci sia fila. Io mescolo volentieri i percorsi, quando devo assolutamente scendere in città dal mio tranquillo rifugio estivo nel Collio goriziano. Prima un pezzetto lungo la Strada costiera, non mi privo già da tempo del saluto a Trieste nella piccola galleria che alcuni chiamano di Dante, poiché arrivando da Sistiana si dovrebbe riconoscere nella pietra il profilo del poeta. Un’ultima volta l’ho fatto dopo che il suo inventore è morto pochi anni fa. Da quel momento non si suona più tre volte il clacson. Peccato. Quanta vita c’è di Biagio Antonacci arriva dalla radio a tutto volume e il sole brucia sopra la mia testa pelata. Di nuovo ho dimenticato di mettere il cappello, cosa particolarmente stupida perché non solo io ma anche la macchina è priva di tettuccio.
Fortunatamente il mio triestino di Trieste non siede in macchina con me. Trova Antonacci terribile, un musichiere italiano. Io amo Biagio e poi il triestino di Trieste ascolta Radio Arabella e Antenne Steiermark, perciò siamo pari.

All’incirca all’altezza dei Filtri rallento e mi inerpico a sinistra verso Santa Croce sul Carso. Questa è la mia strada. Salire da lì dà un po’ la sensazione di decollare. E un colpo d’occhio nello specchietto retrovisore verso il blu intenso dell’Adriatico contrasta con il bosco di pini davanti a me. E in alto quest’aria fresca del Carso e questa luce, sempre questa luce. Quasi al margine del
ciglione carsico c’è il cimitero di Santa Croce. Se proprio un giorno dovrà essere, allora questo sarebbe un buon posto per l’eterno riposo. Ancora un pezzo di salita da affrontare e poi giù lungo l’altipiano.
Non siamo ancora arrivati e si prosegue verso Prosecco. La storia di Prosecco e della Glera la conoscete in quanto amanti di Trieste e non serve riferirla (ok è una perfida astuzia, ma non ho voglia di raccontarvela adesso, bevete piuttosto un calice di Glera e leggetela nel mio libro Geliebtes Görz). Però forse ve ne parlerò in un prossimo racconto triestino, che tratterà dei borghi limitrofi alla città, dopo tutto siamo nella città immediata di Trieste e il suo territorio, che
inizia dalla colonne di Francesco I dopo Aurisina. Per questo adesso nessuna storiella su Contovello, la località dalla quale adesso lascio di nuovo il Carso per scendere in direzione della città. Da Salita di Gretta e Via Udine sbuco sul fianco della stazione e proseguo attraversando via Battisti, l’Acquedotto (ok, ufficialmente Viale XX settembre) e una serie di viuzze fino al mio quartiere.
Con i quartieri qui non è così semplice come a Vienna. Un triestino non è del primo, dell’ottavo o del sedicesimo (ovviamente c’è anche qui qualcosa di simile a Ottakring ed è San Giacomo). Gli/le abitanti non sono nemmeno di uno dei borghi, sebbene essi ancora esistano con le loro denominazioni asburgiche. Maria Teresa ha il suo borgo, così come Giuseppe e Francesco. Un triestino giuseppino, cioè un abitante del Borgo giuseppino, non lo troverete. Abita
semplicemente nel quartiere intorno a Via del Lazzaretto Vecchio.
Ma non sono ancora in città. Vi ricordate? All’Obelisco volevo riflettere sul fatto che Trieste non è Italia. Quindi? L’asserzione è allo stesso tempo vera e falsa. Perché vi ricordate cosa Auernheimer ha scritto nel primo giorno di Trieste italiana? Trieste è una città di mare ed è per questa sua essenza che non può appartenere completamente a nessuno, perché appartiene sempre per metà al mare.
Traduzione del dr. Diego Caltana
Triestiner Architekturhistoriker und Fremdenführer, lebt in Wien

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