Luciano Santin in occasione del 634° della Dedizione all'Austria



Mi si chiedono due parole in occasione dell’anniversario della Dedizione di Trieste all’Austria. Non parlerò di nostalgie, di miti scintillanti, di patrie ideali, di appartenenze a una civiltà. Temi che pure avrebbero ragioni e dignità per essere trattati.
Parlerò invece di funzionalità. Pazienza se qualcuno rimarrà deluso, ma sono capace di dire solo ciò che penso, ciò che ho faticosamente e provvisoriamente maturato negli anni.
Partirei da una riflessione. La mia infanzia ha attraversato il dopoguerra, ultimi anni ’40, primi ’50, quindi ho mangiato pane e Fratelli d’Italia, Piave, Ragazze di Trieste, ogni giorno che Dio mandava in terra.
Ma giunto all’età della ragione, mi sono reso conto che sulla storia patria, intendo quella della Heimat triestina, mi era stato raccontato ben poco, a parte il mito della doppia redenzione, tacendo peraltro i venticinque italianissimi anni intercorsi tra i due fatti, con tutti i nefasti eventi, gli esiti, le conseguenze.
Soprattutto il mezzo millennio che aveva preceduto il possesso italiano, era stato liquidato con il distico di una canzone, che si cantava ogni mattina a scuola, altrimenti le lezioni non sarebbero potute iniziare, e che recitava: “infranse alfin l’italico valore, le forche e l’armi dell’impiccatore”.
Dunque, la notte e l’alba: prima le tenebre della tirannide assassina, poi la luce gloriosa e salvifica. Redentrice. Nient’altro.
Ma dell’altro ci doveva essere: stava a testimoniarlo l’ossatura stessa della città, i palazzi, l’impianto urbano, quello portuale. Tutte cose che avevano ben più dei quarant’anni che separavano la mia fanciullezza dalla Trieste del primo ’900.
Così ho cominciato a documentarmi, a leggere testi di storia, ma ancor più vecchi giornali, a chiacchierare con i testimoni di quell’epoca scomparsa, che erano già vecchi quando io ero giovane.
E le prime scoperte furono, allora, l’alfa e l’omega della Trieste asburgica: l’impressionante crescita occorsa tra il 1900 e l’inizio della Grande guerra, e l’atto che ne era stato all’origine, sia pure molto da lontano: la Dedizione all’Austria.
Una cosa abbastanza sbalorditiva, quest’ultima: nel 1300 le città si conquistavano col ferro e col fuoco. Al massimo i regnanti si scambiavano i possedimenti, con gli abitanti sopra, secondo le loro convenienze.
Trieste, invece, all’epoca fece una libera scelta.
Si offrì all’Austria, contrattando condizioni di grande favore, tra cui quella, mai abbastanza sottolineata, di bene indisponibile.
La corona non avrebbe mai potuto cedere la città così come allora si usava, le sorti degli Asburgo erano indissolubilmente legate a quelle di Trieste, che poteva solo essere strappata loro. E ciò occorse, con Napoleone e poi con i Savoia. Ma, si trattò, appunto, di una conquista.
A questo punto la domanda che discende dalla Dedizione è: perché questa scelta, perché darsi all’Austria?
La prima risposta, abbastanza ovvia è: c’era una forte istanza autonomista, legata al libero Comune, e Trieste non voleva sottomettersi a Venezia, signora del mare, che con le buone e le meno buone si era impossessata di tutta la costa del Nord Adriatico.
La seconda risposta, o una prosecuzione della prima, se vogliamo, chiede di allargare un po’ lo sguardo alla carta d’Europa, l’Europa continentale. Nel momento in cui la città restava l’ultima figurina, quella che mancava alla collezione veneziana, diventava automaticamente più preziosa.
E questa tessera mancante al mosaico costiero della Serenissima poteva diventare altamente strategica. Non c’era più il muro di Venezia, a chiudere all’Europa centrale l’accesso al mare, o a monopolizzarne il controllo, ma c’era un varco, tra l’altro il punto più diretto e favorevole in termini di passi montani, con il Prewald, sotto il Nanos.
Questa opportunità piace pensare che sia stata allora presa in considerazione, certo a futura memoria, perché l’Adriatico non era ancora un mare libero. Lo sarebbe diventato appena nel 1717, con la patente di libera navigazione proclamata da Carlo VI.
C’è da considerare il fatto che la tensione verso il Mediterraneo del bacino danubiano ed oltre è un dato quasi fisico, gravitazionale. Pensiamo ai patriarchi tedeschi, che attraverso il Friuli puntavano al mare, o anche alla Germania nazista, che voleva Trieste per farne il porto meridionale del III Reich.
Ripeto, non parliamo di cascami romantici, di affetti controirredentistici. Non parliamo neppure di legalità. Certo, nel 1918 per l’annessione all'Italia non si fecero plebisciti. Erano stati tenuti, decenni prima, al Sud, in Toscana, negli Stati pontifici, per l’unificazione d’Italia, e poi in Veneto e in Friuli per le annessioni del 1866. Ma a Trieste no. Non si fece nulla. Perché - fu la spiegazione - dell’italianità di tutte le terre della penisola si poteva dubitare, non di quella di Trieste, la fedele di Roma.
Anche fedelissima dell’Austria, però.
Ma, dicevo, non parliamo di queste cose che appartengono ormai alla storia, parliamo della geografia. Della funzione di Trieste.
Trieste ha un senso come città europea, o non lo ha. Non lo ha come centro di una certa dimensione.
Nei primi anni del ’900 a dirlo con consapevolezza fu Ruggero Timeus: “cresca l’erba tra le pietre dei moli, purché siamo italiani. Torniamo a essere un villaggio costiero, ma nel seno della madrepatria”.
Per l’Italia, che dispone di parecchi sbocchi a mare dalla Liguria al Veneto, Trieste è un posto fuori mano e tecnicamente, funzionalmente – ripeto – inutile.
Invece nell’Europa di oggi, che, pur tra contraddizioni e zoppìe ha una permeabilità molto maggiore che non in passato, Trieste potrebbe far valere il suo ruolo strategico, tra Centro Europa e Mediterraneo, e anche tra Est e Ovest.
Ma per poterlo realmente riassumere Trieste deve essere in grado di rapportarsi con il suo Hinterland direttamente, rapidamente, e godendo di poteri decisionali.
Se ogni cosa deve transitare per Roma la battaglia è perduta in partenza. Perché a livello centrale italiano si dimenticano abbastanza di noi. Funzionalmente non serviamo, elettoralmente non contiamo, a livello italiano centomila voti, perché di questo si tratta, pesano poco.
Tre anni fa “Reporter”, l’esemplare programma di Milena Gabanelli su Rai 3, si è occupata dei collegamenti a Nord Est, Slovenia e Austria. Interviste ai governatori Zaia e Serracchiani, a Mauro Moretti, all’epoca amministratore delegato delle ferrovie, a Bortolo Mainardi, commissario straordinario Tav.
Andatevela a guardare, questa trasmissione, ecco il link. Si intitola confine Nord est. Ne esce fuori sostanzialmente questo discorso: l’Italia ha deciso di disinvestire sulle ferrovie verso est e verso nord.
E questo mentre ci si spertica in discorsi sulla necessità di fare la Tav come corridoio europeo.
Ci sono delle cose che assolutamente non quadrano.
Questa sintesi l’ho fatta io, ma, come ho detto, andatevi a vedere il servizio e giudicate personalmente.
Ecco, queste sono cose sulle quali i nostri rappresentanti dovrebbero attivarsi, non sulla guerra agli artisti di strada o sulla spiaggia tipo Copacabana a Barcola.
Da notare che la Presidente della Regione denuncia l’abbandono, però lei, che è numero due del partito di governo e che è anche responsabile nazionale dei Trasporti e Infrastrutture dello stesso partito, forse potrebbe fare qualcosa. Ma da Roma adesso si preferisce guardare al ponte sullo stretto di Messina.
Ripeto una volta di più. Qui parliamo di funzionalità. Se avremo modo di relazionarci con il mondo cui possiamo servire, e che serve a noi, ma relazionarci in modo diretto, senza tramiti e filtri lenti e poco motivati, possiamo nutrire delle speranze nel domani. Altrimenti mettiamoci il cuore in pace.
Circola un’aria strana. Si parla di soppressione dell’autonomia, forse di macroregione Nord Est. Penso che sarebbe una cosa esiziale.
Perché, se l’autonomia era una necessità, affermata come tale, quando Trieste era limes del mondo occidentale, suo caposaldo di chiusura, è ancora più vitale oggi, che sono possibili l’apertura e le interazioni positive.
La funzione crea o sviluppa gli organi diceva Lamarck. Ma se si fa di tutto per bloccare la funzione, gli organi non nasceranno, e quelli che esistono deperiranno.
A Trieste l’abbiamo visto negli ultimi centovent’anni. Iniziati con uno straordinario, tumultuoso sviluppo, al quale è seguita una decadenza che sembra non avere fine.

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