Solo
poche parole per evitare che questi incontri rappresentino stanche
liturgie in cui si rimastica il passato come un bolo alimentare ormai
senza sapore né nutrimento.
Solo
poche parole rivolte al futuro.
Quando,
due anni fa, si è riaccesa l’attenzione su Maria Teresa d’Austria,
la sovrana cui Trieste deve l’avvio delle sue fortune e della sua
crescita, si è puntato, dappertutto su una caratteristica precisa e
fondamentale: il suo essere europea.
Nella
cultura, nelle competenze linguistiche, nella visione, che tentò di
realizzare con una rete di matrimoni dinastici.
E’
il caso di riflettere sulla coincidenza tra questa prospettiva
europea e il grande salto di qualità di Trieste, la sua
trasformazione cioè da borgo con residue tracce di Medioevo a centro
moderno e proiettato verso l’esterno.
Per
quanto, merci o persone, esca dall’Europa centrale siamo il primo
porto di imbarco, e siamo l’approdo più vicino per quanto vi
entri.
Nessuna
città ha tanto bisogno dell’Europa quanto Trieste. Ma forse anche
viceversa.
Questo
è un luogo che nella parte migliore della sua storia è stato
straordinariamente inclusivo, e ha fatto sì che nessuno vi si
sentisse davvero forestiero.
In
quanti alle sorti della città, sono sempre state eterodirette. Nel
bene e nel male. E’ stata la grande geopolitica a scegliere.
Vienna, Roma, Londra, Parigi, Washington, Mosca, Belgrado.
E
questo dai tempi di Maria Teresa, che ordinò l’abbattimento delle
mura, l’incorporazione della città nuova in quella vecchia e
l’allargamento del porto franco. Con un gesto che potremmo anche
definire dispotico ma che fece grande Trieste.
Due
riflessioni sul presente, allora. Ci sono, nuovamente importanti
interessi che guardano al nostro scalo. Parlo ovviamente della Cina.
Credo che non dobbiamo averne paura. Siamo un relais importante
dell’economia europea, non italiana. E l’economia europea è la
più grande al mondo. Più della Cina, e più dell’America, che
infatti teme l’Antico continente.
Purtroppo
siamo usi a ragionare in termini nazionali: economia tedesca,
francese, italiana. Ma i 28 dell’UE o i 27, se non contiamo la Gran
Bretagna, che forse ora si sta rendendo conto del clamoroso errore
compiuto con la Brexit, sono la
potenza.
Europa
first, dovrebbe essere il motto che ci unisce.
Prima
gli europei, ma con toni molto diversi da quelli usati nel motto
prima gli italiani. Non scelte di esclusione, ma volontà di
recuperare quella leadership di cultura e civiltà di cui da un
secolo altri si sono appropriati, sfruttando due tremende guerre
europee.
Spirano
venti venefici, in questi giorni. Si vogliono distruggere costruzioni
faticose, avviate proprio quando abbiamo cominciato a renderci conto
di quanto le divisioni avessero danneggiato e indebolito anche i
singoli paesi europei.
Spaccare
è facile, la storia ce lo insegna, rimettere assieme i cocci, è
invece molto più lungo e difficile.
Gli
interessi politici di piccolo momento lavorano sull’ostilità,
cercano nemici esterni su cui scaricare il malcontento. E i social
fanno da amplificatore a chiunque predichi l’odio.
Dobbiamo
guardarci da queste negatività. E’ sacrosanto amare le piccole
patrie, salvaguardare lingua, cultura e usanze locali, curare i
propri interessi. Ma non contro altri, perché la via della divisione
e della frammentazione finisce con il danneggiare tutti. Dobbiamo
recuperare quel rispetto e quella capacità di dialogo che furono la
cifra di un Paese in cui l’inno si cantava in undici lingue.
Questo
punto è vitale, per la Trieste dell’oggi e del domani, che ha come
guida istruttiva e chiara, i tre secoli che sono passati da Maria
Teresa, sempre che non la storia non la si voglia mistificare, come è
stato nel ’900 e come si sta cercando di fare nuovamente.
Abbiamo
bisogno di più Europa, non di meno Europa. Tutti, ma i triestini
misura maggiore. Perché è stato propalato per un secolo lo slogan
della città cara al cuore di tutti gli italiani. Ma invece, e oggi
forse ce ne stiamo riaccorgendo, Trieste è cara al cuore di tutti
gli europei.
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