Ricordati di me

Miren/Merna: località di vera frontiera, anzi sulla frontiera. Cimitero: “Spomni se name” scritto dovunque.
Ricordati di me.
Non occorre andare a Berlino per vedere tracce di storia, di muri, di fili spinati, di città divise.
A imperitura memoria di quanto noi Litoranei abbiamo sofferto nel secolo scorso, da poco è sorto uno dei musei di nicchia più particolari al mondo. Anzi unico.
Ingresso gratuito.

È piccolo ma di enorme portata e interesse.
Il cimitero in questione fu, come in molti altri casi di tratteggio a tavolino dei confini dopo la Seconda Guerra mondiale, tagliato in maniera insensata letteralmente in due.
Metà tombe rimanevano in Jugoslavia, metà in Italia.
Anzi peggio.
Alcune tombe furono proprio attraversate dal filo spinato: il morto apparteneva metà a un paese metà all’altro.
Nel museo potrete leggere come molte tombe per anni non poterono essere curate, perché “dall’altra parte” e ci si rimetteva reciprocamente al buon senso del vicino, guardando la tomba del proprio caro oltre il filo spinato.
Cimitero di Miren, che un po’ come il grande filosofo danese Søren Kirkegaard significa qualcosa come “triste cimitero”, non poteebbe avere nome migliore. “Miren” in sloveno significa “tranquillo, quieto, raccolto”, “mir” è la pace. Sotto cocenti 39 gradi e un sole che squarcia, scorgiamo un’anziana donna, china a quell’ora di punta su una tomba, dove passa una striscia arancione che il Goriški Muzej ha posto lungo l’ex reticolato e filo spinato che divideva in due il cimitero. Risuona un “Dober dan” collettivo e all’unisono che interrompe quel silenzio spettrale e gravido del meriggio.
Guardo la donna in età avanzata e penso a 40 anni fa quando quella tomba di famiglia (noto il cognome prisco sloveno della zona) era divisa tra due paesi, due blocchi, due mondi. E la pietà era negata anche ai morti. La signora prende un secchio e lo riempie d’acqua per i bei fiori appena portati, constatando con me che, con questa calura, bisogna dar loro tanta acqua. Seguiamo insieme quella linea gialla divisoria tra le tombe, increduli di quello che vediamo. Per metri e metri il cimitero lastricato da un cordone arancione, posto esattamente sull’ex reticolato. “Spomni se name”, biascico ad alta voce, pochi ma pregnanti pannelli in sloveno, solo uno plurilingue, e altri bilingui sloveno-inglese.
Eravamo appena reduci dagli orrori della prima guerra e da migliaia di morti ungheresi di Doberdob per fiondarci in questo angolo di altra storia, di altra separazione delle nostre genti, della nostra cultura che per secoli convissero qui nel Küstenland prima della Katastrophe. Ecco lì, in questo angolo disparato di mondo, Miren, ho sentito come tutti noi “nameless” siamo proprio come quel cimitero. Risultati di operazioni matematiche in sottrazione da parte di Altri. Ridotti a parvenze identitarie patogene. Nameless da vivi, nameless da morti. Tranciati da linee confinarie nella vita, nella morte, nella mente, nel cuore.Il sole abbacina, le tombe si stagliano indefinite nella canicola, la signora prega indifferente come ci fosse una temperatura fresca montana, immersa di spiritualità tibetana: probabile ne ha vissute in vita di molto peggiori, che non stare all’ora di punta sulla tomba di famiglia, che oggi può finalmente curare e che fino a qualche anno fa era divisa tra due stati.
Mi guardo attorno, il magyaro di Vojvodina che accompagno in cerca dei suoi bisnonni ungheresi mi bofonchia qualcosa con le sue vocali da sordomuto, vuole declamare una poesia di un suo eroe unno, András Széles, gli dico: “no, no, non qui, non è un cimitero della prima guerra questo....declamo io una poesia che mi è venuta ora in mente! non ci sono ungheresi qui, poi a Doberdob o a Visentini declami tu”. Mi era venuta in mente spontanea una poesia di Ligio Zanini, in istrioto, antica lingua ladina dell’Istria che sta morendo oggigiorno, forse mentre leggete è già estinta. Si intitola “Sensa nom”, nameless appunto. Si riferisce a quei pesciolini piccoli, uguali, indistinti, inutili, mi sembra che a Trieste li chiamino col tipico witz “ranzido” di quella città “ribaltavapori”. Eccola, i senza nome, pesciolini insulsi, come un popolo ormai minuto, debole, nameless.
La declamo in istrioto al meglio della mia pronuncia pesantemente retoromanza, il magyaro ascolta attento, la vecchia signora slovena mi guarda e interrompe la litania di preci ataviche. Si mette ad ascoltare pure lei. Probabilmente pensa che strana variante di friulano sia quello che declamo.


Sensa nom
In tanti sensa nom i giariendi,
a miera inda ingrumiva
e sempro in tanti i rastiendi.
In puochi sensa nom i signemo rastadi,
puochi inda ingrumide
e ciari i crissemo duopo ingianaradi.
Cula vostra cragna inda massì li ùe
e quii puochi, intel mar da casa nostra,
i signemo sempro intra li rue.
A nu saruò culpa da nui sensa nom,
i nu vemo denti par mursagà,
ma va rastaruò nama ch'i uoci
par piurà ch'inda vì dassamansà.
Termino esaltato con le lacrime, ebbro di caldo e di istrioto, in trance ieratica. I due mi guardano attoniti, muti, non hanno capito nulla. Trovo alla svelta una traduzione fortuita su internet per il magyaro e per la signora slovena che si guardano reciprocamente come quando si è vicini a un pazzo esagitato.
In tanti senza nome eravamo
a migliaia ci raccoglievate
e sempre in tanti restavamo.
In pochi senza nome siamo rimasti,
pochi ci raccogliete
e radi cresciamo dopo generati.
Con il vostro sporco ci avvelenate le uova
e quei pochi, nel mare di casa nostra,
siamo sempre tra le spine.
Non sarà colpa di noi senza nome,
non abbiamo denti per mordere,
ma a voi resteranno soltanto gli occhi
per piangere che ci avete distrutto.
Ci guardiamo tutti, io, il danubiano dal passaporto serbo e di madre lingua ungherese, la signora anziana slovena dalla tomba divisa. In silenzio. 
Il saluto, il commiato diventa quasi superfluo. 
Il vojvodaro mi racconta uscendo che la sua terra, come il Litorale, dopo la prima Guerra fu estrapolata dalla nostra Duplice Monarchia e data ai serbi. E da allora paesi e villaggi al 100% ungheresi sono in Serbia, sempre meno etnicamente compatti. E si lo so, non dirmi altro, lo sento: c’è un Miren anche da voi! Ne sono convinto. Un cimitero diviso tra Ungheria e Serbia. Non so come si chiama ma ci sarà sicuro. L’uomo è una bestia con caratteristiche molto simili a tutte le latitudini.

(Sandi Radmilovich)








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