19 marzo 1774: nasce Domenico Rossetti


Il sogno municipalista di Domenico Rossetti (1774-1842)
Di Zeno Saracino
Non c'è nazionalista più accanito di colui che nasce in territori di frontiera, non c'è nobile più convinto dei propri diritti naturali di colui che lo è appena stato nominato e non c'è sostenitore più acceso della purezza della lingua di colui che vive in una minoranza linguistica.
Le situazioni d'incertezza, al confine, suscitano nella storia reazioni opposte: profondo cosmopolitismo o acceso nazionalismo. La storia di Trieste, città di frontiera, lo comprova.
Domenico Rossetti rientra in questa corrente, anzi ne è un particolarissimo simbolo: la sua genealogia rivela una famiglia giunta a Trieste grazie all'evoluzione – demografica e politica – del Porto Franco. Il nonno veneto era giunto a Trieste nel 1734; il padre aveva avuto grande successo nel commercio, divenendo in breve tempo una figura importante a Trieste. In questo contesto il duca di Modena prima e Maria Teresa d'Austria dopo l'avevano nominato conte, col predicato de Scander. Antonio Rossetti era successivamente entrato nel Consiglio dei Patrizi (1780); ruolo che passerà poi al figlio, Domenico (1802).
Rossetti pertanto era quanto oggi definiremmo un “nuovo arrivato” al confronto con le genealogie tanto illustri, quanto decadenti dei colleghi patrizi. Il giovane aveva studiato nell'adolescenza a Prato, approfondendo poi l'interesse per la filosofia all'Università di Graz e per la giurisprudenza a Vienna, dove fu incoronato con gli allori di avvocato. In questo contesto, rientrato a Trieste, iniziò un duplice lavoro di giurista e politico, volto a rinvigorire la posizione di Trieste all'interno dell'Austria, con una fiera difesa del municipalismo cittadino.

Il pensiero storico-filosofico di Domenico Rossetti è stato appropriato – come tanti pensatori triestini, ma non solo; si pensi anche a tanti “santini” risorgimentali – dapprima dall'irredentismo a cavallo tra '800 e 900 e in seguito dalla storiografia fascista.
Le riflessioni di Rossetti sono state decontestualizzate; frasi sì autentiche, ma collocabili nell'alveo di un concetto di nazione settecentesco, se non dell'
ancient regime, sono state re-interpretate come forme di nazionalismo ottocentesco. D'altronde negli anni Venti e Trenta del Novecento non era possibile altrimenti: un difensore dell'identità triestina non avrebbe potuto essere altro che un difensore dell'identità italiana. Domenico Rossetti sconfessa tutto ciò nella sua opera più particolare, quel Progetto di Statuto (per il Comune di Trieste) proposto al Consiglio dei Patrizi quando la città ritorna agli Asburgo. La dominazione francese aveva cancellato quanto sopravviveva dell'antico ordine feudale, permettendo alla Restaurazione di scegliere tra ricostruire l'ordine scomparso o raccogliere quanto di fruttevole era stato coltivato dalle riforme napoleoniche.
In quest'ambito una visione nazionalista del Rossetti lo vorrebbe in prima linea a difendere la neonata idea di stato-nazione abbozzata dalla rivoluzione francese. Eppure il Rossetti, in contrasto a quanto compierà l'Austria, propone nel Progetto di Statuto un ritorno ai tempi antichi: una visione di Trieste come città-stato soggetta agli Asburgo, ma gelosa dei suoi particolarismi.
L'Austria, dopo aver assunto il manto imperiale dietro imitazione del cugino francese, recuperò dall'amministrazione napoleonica i procedimenti civili, se non la certezza della legge: procedendo così a inglobare nella sua infrastruttura una modernità che aveva già seminato a suo tempo un monarca illuminato quale Giuseppe II.
Domenico Rossetti, a sua volta, operò una simile rivoluzione per Trieste: il Progetto per lo Statuto non ignorava il presente, ma lo recuperava in funzione dell'antico. I nuovi strumenti amministrativi ed economici –
in primis il Porto franco – introdotti nel corso del XVIII secolo venivano rielaborati dal Rossetti per difendere l'autonomismo plurisecolare della città.
Domenico Rossetti in tal senso operò una rivoluzione storiografica nei confronti della città di Trieste. In un contesto in cui prevaleva tra la classe borghese l'idea di Trieste come città nata a seguito dell'istituzione del Porto Franco, operò uno sforzo titanico nel rintracciare la sua storia alla Dedizione di Trieste all'Austria in quel lontano 1382, re-inserendo la patente di Carlo VI all'interno di una tradizione di franchigie e privilegi. Lo Statuto inglobava la Trieste teresiana, cercava (contraddicendosi) di considerarla storia comunale.

Mentre i patrizi erano disinteressati all'economia della città e miravano, quale Municipio, a tutelare privilegi ormai privi di senso, Rossetti cercò strenuamente di ridare vigore al Consiglio, di restituire energie fresche e vitali alla tradizionale comunale di Trieste.
Sforzo vano, si direbbe, se consideriamo come lo storico Pietro Kandler osservasse che per i patrizi l'Historia Trieste del padre Ireneo della Croce era il “Quinto Vangelo”. Lo sguardo dell'aristocrazia “di sangue” era rivolto all'indietro: al Seicento, al Cinquecento, a un Medioevo immobile. Rossetti non era così lontano da questa visione; ma desiderava realizzarla sovvertendo le nuove forze scaturite tra Settecento e Ottocento. Il Porto Franco avrebbe dovuto operare, ma al servizio del Municipio. Le novità settecentesche non avrebbero dovuto essere rigettate, ma ri-usate per ripristinare antichi privilegi di medievale memoria. Il cosmopolitismo per Rossetti era un mezzo per un fine; e quest'obiettivo finale avrebbe dovuto essere una nuova classe di patrizi, di nobili triestini.
Rossetti li definiva addirittura “ottimati”: una classe nobile superiore per spirito e cultura alla massa dei plebei. Un'idea difficilmente conciliabile, come invece ipotizzava lo storico Tamaro, con l'appartenenza di Rossetti tra le fila della Giovine Italia di Mazzini o semplicemente tra le figure del Risorgimento italiano.

In questa cornice di pensiero Rossetti era certo italiano; ma era un concetto d'Italia che affondava le sue radici nella latinità, negli studi all'Università, nella tradizione umanistica dalla quale recuperare modelli di etica e virtù per il presente. L'amore di Rossetti per Petrarca non si risolse mai ad esempio in un sentimento di appartenenza nazionale, ma solo culturale.
La lingua e la cultura italiana trovavano in Rossetti un difensore solo nella misura in cui gli garantivano una difesa a spada tratta del municipalismo di Trieste; era un'altra trincea dalla quale opporsi a chi voleva negare l'autonomismo cittadino.
Il riconoscersi italiano per Rossetti equivaleva a un “abito di pensare, di sentire, di agire”. D'altronde già a inizio Ottocento Rossetti professava grande simpatia per la comunità tedesca, insediatosi dai tempi del Porto Franco e divenuta predominante nel Borgo Teresiano. I tedeschi erano “fratelli” nella comune fedeltà alla Monarchia austriaca, una seconda anima di Trieste che non ne intaccava la tradizione autonomista.

La difesa del municipalismo e la nostalgia per il passato di Trieste non trovano dunque in Domenico Rossetti contraddizione nella fedeltà all'Austria. Trieste ha conservato la sua autonomia in virtù della fedeltà giurata alla casata degli Asburgo: una dedizione che non è, come in altra storiografia, sottomissione, ma rapporto bilaterale. Rossetti configura la Dedizione come un contratto privato, rispettivamente tra l'arciduca Leopoldo e il Comune di Trieste. La popolazione di Trieste volontariamente si da all'Austria, il cui “buon governo”, dal suo canto, amministra “con saggezza e moderazione”, senza ledere i diritti della città.
Sono evidenti, a questo proposito, i salti mortali di Domenico Rossetti: il Porto Franco non è certo un'evoluzione della Trieste medievale, ma un portato della modernità. E così tante delle innovazioni risalenti al Secolo dei Lumi. La Trieste Settecentesca, col suo quartiere teresiano, poco o nulla ha da spartire con Città Vecchia. Ma Domenico Rossetti, quale difensore dei patrizi, cerca di connettere il vecchio con il nuovo, il Municipio con il Porto Franco.
Si tratta di un'impresa ideologica, più che storica; tale da garantire un'identità cittadina “forte”.
In questo contesto, con “azione drammatica”, così Rossetti contestualizzava la Dedizione:
Da infelice stato/ sorga Trieste al fin: si acquisti pace,/ Pace perpetua, e fortunato regno/ Su pochi cittadin; e questi a meta/ Aggiano patria, e libertate, e legge,/ E grato e fido cor verso il sublime/ Nostro nuovo Signor!

Bibliografia:
Giorgio Negrelli, Il municipalismo di Domenico Rossetti, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1967

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