Il
sogno municipalista di Domenico Rossetti (1774-1842)
Di Zeno Saracino
Non
c'è nazionalista più accanito di colui che nasce in territori di
frontiera, non c'è nobile più convinto dei propri diritti naturali
di colui che lo è appena stato nominato e non c'è sostenitore più
acceso della purezza della lingua di colui che vive in una minoranza
linguistica.
Le
situazioni d'incertezza, al confine, suscitano nella storia reazioni
opposte: profondo cosmopolitismo o acceso nazionalismo. La storia di
Trieste, città di frontiera, lo comprova.
Domenico Rossetti rientra in questa corrente, anzi ne è un particolarissimo simbolo: la sua genealogia rivela una famiglia giunta a Trieste grazie all'evoluzione – demografica e politica – del Porto Franco. Il nonno veneto era giunto a Trieste nel 1734; il padre aveva avuto grande successo nel commercio, divenendo in breve tempo una figura importante a Trieste. In questo contesto il duca di Modena prima e Maria Teresa d'Austria dopo l'avevano nominato conte, col predicato de Scander. Antonio Rossetti era successivamente entrato nel Consiglio dei Patrizi (1780); ruolo che passerà poi al figlio, Domenico (1802).
Domenico Rossetti rientra in questa corrente, anzi ne è un particolarissimo simbolo: la sua genealogia rivela una famiglia giunta a Trieste grazie all'evoluzione – demografica e politica – del Porto Franco. Il nonno veneto era giunto a Trieste nel 1734; il padre aveva avuto grande successo nel commercio, divenendo in breve tempo una figura importante a Trieste. In questo contesto il duca di Modena prima e Maria Teresa d'Austria dopo l'avevano nominato conte, col predicato de Scander. Antonio Rossetti era successivamente entrato nel Consiglio dei Patrizi (1780); ruolo che passerà poi al figlio, Domenico (1802).
Rossetti
pertanto era quanto oggi definiremmo un “nuovo arrivato” al
confronto con le genealogie tanto illustri, quanto decadenti dei
colleghi patrizi. Il giovane aveva studiato nell'adolescenza a Prato,
approfondendo poi l'interesse per la filosofia all'Università di
Graz e per la giurisprudenza a Vienna, dove fu incoronato con gli
allori di avvocato. In questo contesto, rientrato a Trieste, iniziò
un duplice lavoro di giurista e politico, volto a rinvigorire la
posizione di Trieste all'interno dell'Austria, con una fiera difesa
del municipalismo cittadino.
Il pensiero
storico-filosofico di Domenico Rossetti è stato appropriato – come
tanti pensatori triestini, ma non solo; si pensi anche a tanti
“santini” risorgimentali – dapprima dall'irredentismo a cavallo
tra '800 e 900 e in seguito dalla storiografia fascista.
Le riflessioni di Rossetti sono state decontestualizzate; frasi sì autentiche, ma collocabili nell'alveo di un concetto di nazione settecentesco, se non dell'ancient regime, sono state re-interpretate come forme di nazionalismo ottocentesco. D'altronde negli anni Venti e Trenta del Novecento non era possibile altrimenti: un difensore dell'identità triestina non avrebbe potuto essere altro che un difensore dell'identità italiana. Domenico Rossetti sconfessa tutto ciò nella sua opera più particolare, quel Progetto di Statuto (per il Comune di Trieste) proposto al Consiglio dei Patrizi quando la città ritorna agli Asburgo. La dominazione francese aveva cancellato quanto sopravviveva dell'antico ordine feudale, permettendo alla Restaurazione di scegliere tra ricostruire l'ordine scomparso o raccogliere quanto di fruttevole era stato coltivato dalle riforme napoleoniche.
In quest'ambito una visione nazionalista del Rossetti lo vorrebbe in prima linea a difendere la neonata idea di stato-nazione abbozzata dalla rivoluzione francese. Eppure il Rossetti, in contrasto a quanto compierà l'Austria, propone nel Progetto di Statuto un ritorno ai tempi antichi: una visione di Trieste come città-stato soggetta agli Asburgo, ma gelosa dei suoi particolarismi.
L'Austria, dopo aver assunto il manto imperiale dietro imitazione del cugino francese, recuperò dall'amministrazione napoleonica i procedimenti civili, se non la certezza della legge: procedendo così a inglobare nella sua infrastruttura una modernità che aveva già seminato a suo tempo un monarca illuminato quale Giuseppe II.
Domenico Rossetti, a sua volta, operò una simile rivoluzione per Trieste: il Progetto per lo Statuto non ignorava il presente, ma lo recuperava in funzione dell'antico. I nuovi strumenti amministrativi ed economici – in primis il Porto franco – introdotti nel corso del XVIII secolo venivano rielaborati dal Rossetti per difendere l'autonomismo plurisecolare della città.
Domenico Rossetti in tal senso operò una rivoluzione storiografica nei confronti della città di Trieste. In un contesto in cui prevaleva tra la classe borghese l'idea di Trieste come città nata a seguito dell'istituzione del Porto Franco, operò uno sforzo titanico nel rintracciare la sua storia alla Dedizione di Trieste all'Austria in quel lontano 1382, re-inserendo la patente di Carlo VI all'interno di una tradizione di franchigie e privilegi. Lo Statuto inglobava la Trieste teresiana, cercava (contraddicendosi) di considerarla storia comunale.
Le riflessioni di Rossetti sono state decontestualizzate; frasi sì autentiche, ma collocabili nell'alveo di un concetto di nazione settecentesco, se non dell'ancient regime, sono state re-interpretate come forme di nazionalismo ottocentesco. D'altronde negli anni Venti e Trenta del Novecento non era possibile altrimenti: un difensore dell'identità triestina non avrebbe potuto essere altro che un difensore dell'identità italiana. Domenico Rossetti sconfessa tutto ciò nella sua opera più particolare, quel Progetto di Statuto (per il Comune di Trieste) proposto al Consiglio dei Patrizi quando la città ritorna agli Asburgo. La dominazione francese aveva cancellato quanto sopravviveva dell'antico ordine feudale, permettendo alla Restaurazione di scegliere tra ricostruire l'ordine scomparso o raccogliere quanto di fruttevole era stato coltivato dalle riforme napoleoniche.
In quest'ambito una visione nazionalista del Rossetti lo vorrebbe in prima linea a difendere la neonata idea di stato-nazione abbozzata dalla rivoluzione francese. Eppure il Rossetti, in contrasto a quanto compierà l'Austria, propone nel Progetto di Statuto un ritorno ai tempi antichi: una visione di Trieste come città-stato soggetta agli Asburgo, ma gelosa dei suoi particolarismi.
L'Austria, dopo aver assunto il manto imperiale dietro imitazione del cugino francese, recuperò dall'amministrazione napoleonica i procedimenti civili, se non la certezza della legge: procedendo così a inglobare nella sua infrastruttura una modernità che aveva già seminato a suo tempo un monarca illuminato quale Giuseppe II.
Domenico Rossetti, a sua volta, operò una simile rivoluzione per Trieste: il Progetto per lo Statuto non ignorava il presente, ma lo recuperava in funzione dell'antico. I nuovi strumenti amministrativi ed economici – in primis il Porto franco – introdotti nel corso del XVIII secolo venivano rielaborati dal Rossetti per difendere l'autonomismo plurisecolare della città.
Domenico Rossetti in tal senso operò una rivoluzione storiografica nei confronti della città di Trieste. In un contesto in cui prevaleva tra la classe borghese l'idea di Trieste come città nata a seguito dell'istituzione del Porto Franco, operò uno sforzo titanico nel rintracciare la sua storia alla Dedizione di Trieste all'Austria in quel lontano 1382, re-inserendo la patente di Carlo VI all'interno di una tradizione di franchigie e privilegi. Lo Statuto inglobava la Trieste teresiana, cercava (contraddicendosi) di considerarla storia comunale.
Mentre
i patrizi erano disinteressati all'economia della città e miravano,
quale Municipio, a tutelare privilegi ormai privi di senso, Rossetti
cercò strenuamente di ridare vigore al Consiglio, di restituire
energie fresche e vitali alla tradizionale comunale di Trieste.
Sforzo
vano, si direbbe, se consideriamo come lo storico Pietro Kandler
osservasse che per i patrizi l'Historia
Trieste del padre Ireneo della Croce
era il “Quinto Vangelo”. Lo sguardo dell'aristocrazia “di
sangue” era rivolto all'indietro: al Seicento, al Cinquecento, a un
Medioevo immobile. Rossetti non era così lontano da questa visione;
ma desiderava realizzarla sovvertendo le nuove forze scaturite tra
Settecento e Ottocento. Il Porto Franco avrebbe dovuto operare, ma al
servizio del Municipio. Le novità settecentesche non avrebbero
dovuto essere rigettate, ma ri-usate per ripristinare antichi
privilegi di medievale memoria. Il cosmopolitismo per Rossetti era un
mezzo per un fine; e quest'obiettivo finale avrebbe dovuto essere una
nuova classe di patrizi, di nobili triestini.
Rossetti
li definiva addirittura “ottimati”: una classe nobile superiore
per spirito e cultura alla massa dei plebei. Un'idea difficilmente
conciliabile, come invece ipotizzava lo storico Tamaro, con
l'appartenenza di Rossetti tra le fila della Giovine Italia di
Mazzini o semplicemente tra le figure del Risorgimento italiano.
In
questa cornice di pensiero Rossetti era certo italiano; ma era un
concetto d'Italia che affondava le sue radici nella latinità, negli
studi all'Università, nella tradizione umanistica dalla quale
recuperare modelli di etica e virtù per il presente. L'amore di
Rossetti per Petrarca non si risolse mai ad esempio in un sentimento
di appartenenza nazionale, ma solo culturale.
La lingua e la cultura italiana trovavano in Rossetti un difensore solo nella misura in cui gli garantivano una difesa a spada tratta del municipalismo di Trieste; era un'altra trincea dalla quale opporsi a chi voleva negare l'autonomismo cittadino.
La lingua e la cultura italiana trovavano in Rossetti un difensore solo nella misura in cui gli garantivano una difesa a spada tratta del municipalismo di Trieste; era un'altra trincea dalla quale opporsi a chi voleva negare l'autonomismo cittadino.
Il
riconoscersi italiano per Rossetti equivaleva a un “abito di
pensare, di sentire, di agire”. D'altronde già a inizio Ottocento
Rossetti professava grande simpatia per la comunità tedesca,
insediatosi dai tempi del Porto Franco e divenuta predominante nel
Borgo Teresiano. I tedeschi erano “fratelli” nella comune fedeltà
alla Monarchia austriaca, una seconda anima di Trieste che non ne
intaccava la tradizione autonomista.
La
difesa del municipalismo e la nostalgia per il passato di Trieste non
trovano dunque in Domenico Rossetti contraddizione nella fedeltà
all'Austria. Trieste ha conservato la sua autonomia in virtù della
fedeltà giurata alla casata degli Asburgo: una dedizione che non è,
come in altra storiografia, sottomissione, ma rapporto bilaterale.
Rossetti configura la Dedizione come un contratto privato,
rispettivamente tra l'arciduca Leopoldo e il Comune di Trieste. La
popolazione di Trieste volontariamente si da all'Austria, il cui
“buon governo”, dal suo canto, amministra “con saggezza e
moderazione”, senza ledere i diritti della città.
Sono evidenti, a questo proposito, i salti mortali di Domenico Rossetti: il Porto Franco non è certo un'evoluzione della Trieste medievale, ma un portato della modernità. E così tante delle innovazioni risalenti al Secolo dei Lumi. La Trieste Settecentesca, col suo quartiere teresiano, poco o nulla ha da spartire con Città Vecchia. Ma Domenico Rossetti, quale difensore dei patrizi, cerca di connettere il vecchio con il nuovo, il Municipio con il Porto Franco.
Si tratta di un'impresa ideologica, più che storica; tale da garantire un'identità cittadina “forte”.
Sono evidenti, a questo proposito, i salti mortali di Domenico Rossetti: il Porto Franco non è certo un'evoluzione della Trieste medievale, ma un portato della modernità. E così tante delle innovazioni risalenti al Secolo dei Lumi. La Trieste Settecentesca, col suo quartiere teresiano, poco o nulla ha da spartire con Città Vecchia. Ma Domenico Rossetti, quale difensore dei patrizi, cerca di connettere il vecchio con il nuovo, il Municipio con il Porto Franco.
Si tratta di un'impresa ideologica, più che storica; tale da garantire un'identità cittadina “forte”.
In questo
contesto, con “azione drammatica”, così Rossetti
contestualizzava la Dedizione:
Da infelice stato/ sorga Trieste al fin: si acquisti pace,/ Pace perpetua, e fortunato regno/ Su pochi cittadin; e questi a meta/ Aggiano patria, e libertate, e legge,/ E grato e fido cor verso il sublime/ Nostro nuovo Signor!
Da infelice stato/ sorga Trieste al fin: si acquisti pace,/ Pace perpetua, e fortunato regno/ Su pochi cittadin; e questi a meta/ Aggiano patria, e libertate, e legge,/ E grato e fido cor verso il sublime/ Nostro nuovo Signor!
Bibliografia:
Giorgio
Negrelli, Il municipalismo di Domenico
Rossetti, Istituto per la storia del
Risorgimento italiano, 1967
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