8 ottobre 1966: chiusura del cantiere San Marco

 

Di Luciano Santin

A rileggerla, nei resoconti dei giornali dell’epoca, nelle foto d’archivio, nelle testimonianze dei protagonisti, è una storia già ingiallita dal tempo. Una pagina della Trieste di ieri, intrisa di umori e percorsa da tensioni oggi ormai stemperati nel ricordo. Eppure la “guerra dei cantieri” appartiene al nostro passato prossimo. Per dinamica, partecipazione, carica emotiva, rappresenta uno dei passaggi obbligati per capire la città di oggi. Quale che sia la chiave di lettura.

Una storia a tinte accese, scritta sul campo da giovani e operai, che conclude idealmente l’era delle glorie cantieristiche di casa nostra. E ne apre un’altra, quella della progressiva terziarizzazione dell’emporio, maturata nonostante gli sforzi per diversificare ed adeguare le strutture produttive alla realtà di una pesante congiuntura internazionale.

Una vicenda che rappresenta, inoltre, un fondamentale banco di prova per saggiare compattezza, capacità di manovra e credibilità del neonato centrosinistra. E nella quale, secondo alcuni, si possono scorgere in largo anticipo i primi bagliori del maggio francese, prodromo e faro della contestazione poi dilagata in tutta Europa.

A distanza di quarant’anni, è possibile forse ricostruire con serenità la cronistoria e i retroscena di quei “giorni dell’ira” e collocarli nella nicchia storica che compete loro.

Il ’66 sembra annunciarsi come un anno di cambiamenti. Placati i clamori suscitati dal “caso Hresciak”, primo sloveno a sedere su uno scranno assessorile al Comune, sfumati gli entusiasmi sul nuovo insediamento industriale della Siot, all’orizzonte ci sono già l’Ente Porto, l’organo destinato a soppiantare i “Magazzini Generali”, e l’autostrada Trieste-Venezia, quasi ultimata nel suo primo troncone. Si nutrono perplessità per i cantieri: da tempo circolano notizie inquietanti sul destino del San Marco, per il quale politici e sindacati chiedono invece un salto di qualità in termini di riammodernamento e rilancio.


Cancellati dal mare

La bomba scoppia, improvvisa, la mattina di mercoledì 22 giugno: nel corso della sua relazione annuale, il presidente dell’Iri Petrilli annuncia la decisione di incorporare i Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Trieste e Monfalcone in un’unica società navale, ubicata a Genova e comprendente anche Ansaldo e Navalmeccanica. A compensare i danni economici arrecati al comprensorio giuliano, promette la realizzazione di un polo dieselistico a Trieste e una serie di innovazioni tecnologiche negli stabilimenti meccanici del capoluogo. Assicura inoltre la disponibilità dell’Iri alla realizzazione e alla gestione da parte dell’ Arsenale Triestino di un nuovo bacino di carenaggio legato al traffico cisterniero.

La reazione della città è immediata, viscerale, e non si muovono soltanto le organizzazioni dei lavoratori.

Il Piccolo, tradizionale portavoce della borghesia moderata, già impegnatosi nella raccolta delle 80 mila firme (un record mai più raggiunto, nemmeno ai tempi ruggenti della campagna anti Zfic), cavalca e sprona la protesta. Nel suo memorabile editoriale, intitolato “Cancellati dai mare”, Chino Alessi parla di «condanna a morte della nostra industria navale». E aggiunge: «Non c’è conforto che valga, per gente come quella di queste terre, di fronte a provvedimenti che ne tradiscono ogni sentimento e ogni aspirazione».

La diana di guerra del quotidiano squilla in una città distratta dai mondiali di calcio (è l’anno di Wembley e del dentista nordcoreano Pak Do Ik, che affossa l’Italia di Mondino Fabbri) e la chiama a raccolta.

I sindacati proclamano un’agitazione generale di 36 ore. Il 24 giugno piazza Goldoni nereggia di folla, mentre negozi, cinema, teatri, ippodromo chiudono i battenti. Scioperano perfino, a centinaia di chilometri di distanza, gli orchestrali del “Verdi”, in scena al Festival dei due mondi di Spoleto.

Intanto a Roma il ministro alle Partecipazioni Statali Bo, dirama un comunicato per smentire «certe notizie diffusesi nell’ambiente triestino». Si tratta della chiusura del San Marco e della concentrazione dei cantieri navali: non esiste in materia, recita la nota, «alcuna decisione dei competenti organi di governo».

Mentre la protesta cittadina si allarga a macchia d’olio, i partiti serrano le file. Partono per Roma il presidente della giunta regionale Berzanti, gli onorevoli Belci, Bologna e Zucalli, l’assessore regionale all’industria Marpillero e i segretari provinciali delle forze del centrosinistra, Botteri per la Dc, Greatti per il Pri, Pierandrei e Pittoni per il Psdi e il Psi. A riceverli, il giorno dopo, è lo stesso Petrilli, che concede anche un’intervista ad Alessi, precipitatosi nella capitale al traino dei politici.

Il presidente getta acqua sulla polemica: «Noi siamo convinti che certe cose vadano fatte. Non siamo ugualmente convinti che riusciremo a farle. Ma sappiamo con certezza che, se non le faremo. ne deriverà un danno per la città e la regione... I triestini abituati a valutare le cose con concretezza, devono considerare le ragioni del proprio interesse futuro. Non intendiamo fare nulla che nuoccia alla cttà». Anche con i politici il discorso è generico, sulle ali della “grande comprensione” per le istanze giuliane.

La questione dei cantieri tiene banco, l’indomani, nella seduta del consiglio comunale, che si protrae sino a tarda notte. Il sindaco Franzil, bersaglio del fuoco incrociato delle sinistre, si impegna a dimettersi qualora le richieste di Trieste non vengano accolte dal governo. Botteri intanto incontra a Pordenone il segretario democristiano Rumor, di cui sollecita l’interessamento.


Petrilli alla sbarra

Ormai è luglio, ma a Trieste non è tempo di vacanze: il consiglio regionale, al termine di un’infuocata seduta di cinque ore e mezzo, vota una mozione firmata da Mizzau, Cocianni, Dulci e Moro, in cui si dichiara «inaccettabile qualunque soluzione che, nel campo delle aziende a partecipazione statale, non assicuri preventivamente l’aumento del livello dell’occupazione nelle aziende Iri regionali;l’incremento del potenziale produttivo delle industrie connesse alle tradizionali attività marinare dei centri costieri del Friuli-Venezia Giulia e in particolare di Trieste; la scelta di Trieste quale sede direzionale di un’eventuale concentrazione in una sola azienda dei cantieri navali a partecipazione statale esistenti in territorio nazionali.

Petrilli continua nella sua opera pompieristica pur senza sbilanciarsi troppo: interpellato in proposito all’Università di Milano, sentenzia che «Trieste è un caso speciale». E alla delegazione sindacale che incontra a Roma (Novelli e Bentivoglio per la Cisl, Calabria, Burlo e Gerli per la Cgil, Fabricci, Lovero e Russo per la Cgil), spiega che «la decisione è politica». Promette, peraltro, 66 miliardi di investimenti per Trieste e Monfalcone entro i prossimi tre anni.

Il Piccolo. dal canto suo, alimenta senza tregua la protesta. In prima pagina sfilano le più autorevoli firme del giornalismo nostrano in una rubrica creata per l’occasione (“Le ragioni di Trieste”), mentre all’interno non si risparmia il piombo per dare voce alle arringhe di decine e decine di “difensori d’ufficio”.

Dicono la loro, tra gli altri, il vescovo Santin, il sindaco Franzil, l’ex primo cittadino e attuale presidente del Lloyd Triestino Bartoli, il presidente delle Generali Baroncini, quelli della Stock Casali e della Cartimavo Ferraro, il barone De Banfield, direttore della Tripcovich, l’ingegner Di Monda, direttore della Siot, Gianio Parisi, contitolare dell’omonima ditta di spedizioni, il prefetto Mazza, alla vigilia della sua partenza da Trieste, Frida Strudthoff, nipote del fondatore del Cantiere San Marco, l’armatore Gerolimich, l’imprenditrice Ella Segre Melzi, il poeta Biagio Marin, il pittore Marussig, gli olimpionici della vela Sorrentino e Pelaschiar.

Affiancati a loro, i presidenti degli industriali Doria e Florit, quello degli agricoltori Brunner, quello della Fiera Slocovich, il rettore Origone, e con lui molti docenti universitari, gli architetti Nordio e Frandoli, i governatori del Rotary e del Lions, Costantinides e Modiano.

E’ tutta la Trieste che conta a schierarsi in difesa dei cantieri, seguita da studenti universitari, da presidi di scuola media, metalmeccanici e pensionati. Nella lotta vengono cooptati i consiglieri regionali di tutti i partiti, e gli esponenti della vicina area goriziana.

Tra le opinioni ospitate con risalto e foto, quella di Alvise Braida, insegnante di educazione fisica a San Canciano (sic), e Corinna Simonini Tonza, gerente del bar “Sport” di Pieris. Assenti ingiustificati, i futuri capi storici del Melone, che si sveglieranno soltanto dieci anni più tardi.


La faida con Genova

Esplode la faida con Genova, anch’essa, peraltro, minacciata dai tagli dell’Iri. A dar fuoco alle polveri è un articolo che compare sul Corriere della Sera, a sostegno dei diritti del capoluogo ligure a vedersi riconosciuta la leadership in campo cantieristico. Alessi risponde duro: «Trieste può e vuole negoziare, ma non vuole cedere più nemmeno di un centimetro».

All’orizzonte non si vede ancora nulla di nuovo, e in consiglio comunale Psi, Pci e Psiup chiedono a gran voce la testa di Franzil. Ma il lavorio diplomatico, ufficiale e sotterraneo, è frenetico: il vicepresidente del Consiglio Nenni, pungolato da Pittoni, dà assicurazioni su un vertice governativo tutto dedicato al problema di Trieste. Ago della bilancia è il senatore democristiano Caron, sottosegretario al bilancio e presidente della commissione interministeriale di studio per i cantieri. Tocca a lui approvare il voluminoso dossier che sancisce le scelte-guida per le industrie navali della penisola. A Trieste, i maggiorenti dello scudocrociato cercano di incanalare e orientare la protesta che è cavalcata in tandem dai comunisti e dalla Camera confederale del Lavoro.

«Occorre uscire dalla concezione provincialistica puntando anche sul piano territoriale allo sviluppo di Monfalcone», ammonisce il responsabile dell’Ufficio problemi economici Ennio Antonini. «Bisogna sviluppare l’impegno di studio del partito per concrete realizzazioni», gli fa eco Botteri.

Alla fine del mese si sparge la notizia che il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) ha messo a punto un piano per la ristrutturazione del comparto cantieristico. Pittoni preme sui compagni di partito, Tolloy e Pieraccini, ministri rispettivamente al commercio estero e al bilancio, per avere una bozza del documento. Ci riesce. A una prima lettura, il progetto non sembra sfavorevole a Trieste, anzi.

Una conferma indiretta arriva da Genova, dove il sindaco socialista Pedullà denuncia il pericolo di una «penalizzazione a favore della concorrenza adriatica». Nel giro di pochi giorni il fuoco di sbarramento innalzato dai politici liguri si fa tambureggiante, tanto da indurre la Dc triestina a stigmatizzare «una pressione che ha assunto livelli inaccettabili per il costume democratico». Coinvolti nella diatriba quelli che sembrano essere i due paladini naturali delle fazioni in campo: il ministro Bo, nato all’ombra della Lanterna, e il suo collega Tolloy, triestino.


Assalto alla RAI

Agosto si apre nel segno di uno sciopero generale di due giorni, che blocca la città sino alla mezzanotte di mercoledì 3. Volano pietre contro le vetrate della nuova sede Rai, tre agenti di pubblica sicurezza rimangono contusi, il proprietario di un negozio di dischi di Viale XX Settembre che non ha abbassato la saracinesca viene aggredito dai dimostranti. Sembrano cose da poco. In realtà è solo una prova generale dei tumulti che si scateneranno due mesi più tardi.

Si accentua lo scambio di accuse tra le due città rivali. «Se Genova è scontenta, protesti, cerchi compensi, chieda riparazioni. E' nel suo diritto. Ma non chieda compensi a danno di Trieste. L’Italia è grande. Dopo cinquant’anni di furti, sarà meglio cambiare derubato», insorge Chino Alessi.

«I triestini portano acqua al loro mulino usando i vecchi moventi patriottici a sentimentali», replica, aspro, Pedullà.

L’estate di passione scorre, calda e interminabile. Scende in lizza anche Venezia, che si schiera sul fronte orientale: il sindaco Favaretto Fisca spezza una lancia a favore della scelta adriatica. Intanto si approssima una scadenza elettorale, le elezioni comunali di novembre, che, nel marasma generale, parecchi avevano dimenticato. Ad uno ad uno, i partiti del centrosinistra triestino minacciano possibili “disobbedienze” se Roma rimarrà sorda ai loro richiami.

Ormai è settembre inoltrato e si avvicina il momento della verità. Se ne occupa anche il presidente della Repubblica Saragat, sollecitato dal compagno di tessera Giorgio Cesare e dall'inesauribile Botteri.

Quest’ultimo contatta anche Aldo Moro, anticipando la visita di una fitta delegazione giuliana guidata da Belci, Berzanti e Franzil.

Il 28 settembre la tensione si fa spasmodica: è in programma la riunione decisiva del Cipe. Dopo quattro ore di attesa la sentenza è rinviata. La patata bollente della cantieristica passa nelle mani del Consiglio dei ministri.

Però qualcosa dev’essere trapelato. I toni de Il Piccolo mutano. Alessi parla di “serena attesa”. E Botteri assicura che Trieste «saprà certamente accogliere le nuove prospettive con spirito costruttivo e volontà di progresso emarginando quanti, per miopia e preconcetti, vogliono contrastarlo o bloccarlo».

I giochi sono fatti? I sindacati si incontrano ancora con Pieraccini, e Pedullà guida a Roma una falange di 500 operai.


Bufera al Piccolo

Il 5 ottobre c’è uno sciopero di tre ore nel settore navalmeccanico. Un corteo di dimostranti muove da Campo Marzio verso il centro. Sono almeno 2000 persone che occupano piazza Unità reclamando, e ottenendo, un incontro con il sindaco. Poi la marcia prosegue lungo il Corso, diretta al quadrilatero dell’Eca, dove il ministro Scaglia deve inaugurare il Collegio San Giusto. Garriscono nel vento slogan e striscioni dei lavoratori: «Il nostro San Marco non si tocca. Va rammodernato e reso competitivo, facciamo navi dal 1839 e vogliamo continuare a farne»; «Ministri, Iri e uomini politici promettono nuove fabbriche e intanto chiudono quelle esistenti».

In piazza Goldoni la folla si divide. Alcune centinaia di persone inscenano una protesta sotto le finestre de Il Piccolo. La presenza di un nutrito gruppo di poliziotti evita l’assalto al giornale. Ma da un vicino camioncino viene scaricato un sacco di carbone che fornisce i proiettili per bersagliare le vetrate.

La scaramuccia si placa quasi subito, per riaccendersi davanti all'Eca. Stampa e autorità vengono bloccate. Il ministro Scaglia, prudenzialmente, fa dietrofront e torna in Prefettura. Si alza un'altra sassaiola, e in via Pascoli spuntano gli elmetti del nucleo mobile dei carabinieri. Si alzano, derisorie, le note di “Vola colomba”: «Noi lasciavamo il cantiere, lieti del nostro lavoro... », poi i fischi. Alla fine partono i cubetti di porfido.

Iniziano gli scontri tra il presidio e le forze dell’ordine: restano contusi Narciso Sossi, saldatore, Giovanni Filonide, pensionato, e il dottor Zappone, dirigente del commissariato di San Sabba. Intanto, alla spicciolata, sono entrati nell’edificio il presidente del consiglio regionale De Rinaldini, il commissario alla Provincia Pasino, il provveditore agli studi. Arriva anche Bartoli, ed è accolto senza simpatia. Il vescovo Santin, provocato dalla folla, scende dall’auto e affronta i contestatori. Rivendica il proprio impegno, mai venuto meno, in difesa dei cantieri. Da un percorso alternativo, attraverso i giardini del complesso, raggiungono il collegio San Giusto anche Scaglia, il neoprefetto Cappellini, sindaco Franzil, il questore Parlato. Malgrado la bagarre, l’inaugurazione si fa, e la giornata si conclude senza ulteriori incidenti.


Il verdetto del CIPE

I lavoratori cominciano a diffidare di giornali e politici. Una ridda di notizie agita gli animi. I sindacati accusano la stampa di faziosità.

Mancano ormai poche ore alla decisione ufficiale. Venerdì 7 ottobre il Cipe dà la notizia e, l’indomani, Il Piccolo, le dedica tutta la pagina in toni trionfalistici: «Trieste designata sede centrale dell’industria cantieristica di Stato» annuncia il giornale, su sette colonne. E accanto, l’editoriale di Alessi, intitolato «Certezza nel domani», dice che «... il risultato raggiunto è uno dei più importanti che la nostra città abbia mai potuto raccogliere. Se poi guardiamo avanti al futuro di Trieste, al suo avvenire, agli orizzonti che finalmente si schiudono anche sul suo cammino, bisogna dire che il risultato raggiunto assume ancora maggior valore ed è più denso di significati e di mete che trascendono la valutazione contingente». Si tratta, dice ancora Alessi, di «soluzioni organiche, economicamente utili, prese e portate a termine tenendo conto degli interessi di tutta la collettività nazionale».

Altrettanto entusiastici i commenti in cronaca: «Prime positive valutazioni sui risultati raggiunti a Roma. Soluzione innegabilmente vantaggiosa. Accolti gli obiettivi considerati inderogabili dai partiti di centro sinistra. Il comprensorio di Trieste e Monfalcone destinato a diventare con i nuovi grandi complessi industriali sicuro mezzo di rilancio dell'intera zona di confine. Salvaguardata in pieno l’occupazione operaia. Favorevoli prospettive per le attività indotte».

Ma i sindacati non condividono tanto ottimismo. La Cisl non si pronuncia e convoca un direttivo per lunedì 10. La Ccdl parla di «gravissime manchevolezze», perchè la funzione costruttiva appare irrimediabilmente perduta. La Cgil taglia corto: «La battaglia inizia appena ora».

Trieste sembra spaccarsi orizzontalmente. Gli operai si preparano alla lotta, mentre i vertici dei partiti approvano di slancio le scelte del Cipe. Se il vescovo Santin commenta con cautela: «C’è un po’ di malinconia, ma cadiamo in piedi», i responsabili dei partiti inneggiano. «I provvedimenti salvaguardano nel loro complesso gli interessi particolari della regione e di Trieste», dice Berzanti. «Il parto è stato lungo e laboriosissimo, ma alla fine ne è venuto fuori qualche cosa di vivo e anche di vitale… penso che Trieste possa dirsi soddisfatta», aggiunge Bologna.

Botteri, senza mezzi termini, parla di «Successo politico del centro sinistra». E Belci insiste: «E’ un quadro organico che mira al completamento delle infrastrutture e che costituirà un sicuro mezzo di rilancio dell’economia di Trieste e della regione».


Le cifre di Pittoni

Pittoni snocciola cifre: «Alla Gmt ci sarà posto per 2200 persone, all’Arsenale 2000, all’Italcantieri per 1220. Altre 150 assunzioni saranno effettuate agli stabilimenti meccanici di Zaule. In tutto 5550 posti di lavoro contro i 5450 di oggi. E se ne apriranno ancora 350». Dal canto suo Pierandrei afferma che «per la prima volta c’è la possibilità, per la nostra economia, di inserirsi con strumenti adatti nell’attività produttiva italiana ed europea».

La delegazione politica triestina che torna a Trieste in aereo incappa in un terrificante fortunale sopra l’Appennino. Molti dei notabili sudano freddo, irrigiditi sulle poltroncine. Qualche democristiano prega. Ma è roba da niente rispetto alla burrasca che si sta preparando a Trieste.

Una rabbia, protratta per mesi e alimentata da un consenso totale, monta e si prepara ad esplodere nella violenza. Dopo infiniti proclami sull’irrinunciabilità della funzione costruttrice del San Marco, arriva invece la notizia che le navi non si faranno più. Le promesse di altri insediamenti non vengono tenute in grande considerazione.

Alla mattina dello stesso giorno in cui la parte ufficiale della città plaude alla vittoria, su iniziativa del Pci, della Cgil e della Ccdl, 3000 operai sfilano ordinatamente per le rive, per corso Cavour, per piazza Libertà, risalendo poi verso piazza Goldoni. E’ lì che si accendono i primi scontri con la polizia e cominciano i primi arresti. Sembra una ripetizione dei fatti di pochi giorni prima. Invece sono le avvisaglie di uno scontro ben più aspro.


Nella città l’inferno

In Barriera forze dell’ordine e manifestanti, quasi tutti giovani o giovanissimi, si fronteggiano. Vengono innalzate barricate sfruttando il cantiere edile di largo Oriani, dove si sta costruendo il secondo magazzino della Upim. Gragnuole di sassi piovono a protezione delle difese, mentre in piazza Garibaldi sorgono altri sbarramenti. Va distrutta la piccola stazione dei carabinieri di fronte ai magazzini Cavaliero. Da via Carducci si risponde con lancio di lacrimogeni. Il mercato coperto con dentro venditori e clienti, spranga le porte. Le scuole trattengono gli alunni oltre l’orario. Una scena grottesca: nella nebbia dolciastra avanza smarrito un clown del circo Togni, che tenta di controllare due lama terrorizzati. E’ un giro di propaganda fatto nel giorno e nel posto sbagliato.

I primi metri del muraglione che sostiene via Molino a Vento sono smantellati, e i blocchi di arenaria finiscono su viale d'Annunzio. Sull’asfalto vengono versati anche due barilotti d’olio, che mettono in seria difficoltà le jeep lanciate a sfondare la barricata. I filobus 717 e 740 sono spinti di traverso sulla sede stradale, il 738, in folle, prende l’abbrivio lungo la lieve discesa e si schianta contro il negozio Ariston di piazza Garibaldi 2. Chi passa nella zona tentando di forzare il blocco, viene fermato dalla polizia.

Ciril Skodic, un turista di Lubiana che gira la città con la macchina fotografica al collo, viene tradotto in questura e liberato soltanto più tardi. Dopo le 13, San Giacomo e dintorni sono in mano ai rivoltosi. a Scoppia la “battaglia di piazza Sansovino”: le auto che tentano di sortire dalle gallerie invertono la marcia per evitare danni. La polizia si arrocca sul giardinetto sotto via Pallini, mentre nuovi argini sorgono lungo via San Giacomo in monte. Altri filobus fungono da scudo per la guerriglia. Lungo i margini della zona, trasformata ormai in un autentico campo di battaglia, dalle auto dei sindacati rimbalza l’annuncio di uno sciopero pomeridiano. «Le cariche di polizia», gracchiano gli altoparlanti, «non servono né a risolvere i problemi né a soffocare la volontà dei lavoratori di difendere i cantieri». Un negozio di fiori, che non ha chiuso i battenti viene messo a soqquadro. Il circolo Fanin di campo San Giacomo è preso d’assalto: masserizie, libri e documenti sono gettati all'esterno e incendiati.

Nel frattempo, nel palazzo della Prefettura, il commissario del governo Cappellini si incontra con capi delle organizzazioni sindacali e chiede loro di intervenire

Ma San Giacomo ormai è incontrollabile, probabilmente anche dagli stessi dirigenti operai. Stanno calando le ombre della sera, e da Gorizia, da Peschiera, da Verona affluiscono i rinforzi, con in testa il famoso “secondo celere” di Padova, specialista in operazioni difficili. I camion militari sfrecciano sgommando per il centro; gli uomini delle forze dell'ordine, mitra in pugno, hanno i volti tesi. Nella zona occupata è il black-out, molte luci sono fuori uso, e i bagliori tremolanti dei falò proiettano lunghe ombre. L'attacco avviene sotto lo sfolgorio dei razzi con paracadute. Il fitto reticolo stradale del rione dei cantieri è setacciato con spietata meticolosità.

Gli agenti tendono imboscate, quando mettono le mani addosso a qualcuno non vanno per il sottile. A tarda notte l’ordine regna a San Giacomo, presidiata da carabinieri e agenti in assetto di combattimento. La giornata si chiude nel segno di cifre choccanti: 450 fermati, di cui 89 denunciati in stato di arresto, 54 militari e 25 civili feriti. Questi ultimi però, secondo la voce popolare, sono molti di più.

L’impeto operaio, fiaccato, non troverà, nei giorni successivi, altri sbocchi. Il centrosinistra addosserà tutta la colpa dei tumulti ai comunisti e alla loro ”ottusa volontà di salvare un San Marco ormai indifendibile”. Enzo Bettiza, inviato del Corriere della Sera, parlerà di «follia anarco-sindacalista». Ma in realtà l'area di adesione è stata più variegata: Carlo Fabricci proclamerà «un anticomunismo uguale a quello del ’45, ma anche l’impossibilità di ingannare i cittadini».

Trieste volta pagina. La campagna elettorale per le amministrative cala come un sudario inghiottendo passioni, amarezze, odi, paure.

Il mese dopo le urne segnano un piccolo incremento di liberali e indipendentisti. Ma la vera vittoria, al di là di una modesta flessione percentuale, è quella della Dc e dei suoi alleati del centrosinistra. Con oltre 5000 preferenze si insedia al vertice della nuova giunta Marcello Spaccini.

E la protesta? Sepolta, dimemicata. Riaffiorerà, quasi dieci anni dopo, con valenze mutate e anime diverse. Ma questa è un'altra storia.


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