28 novembre 1881: nasce Stefan Zweig

 

Il 28 novembre 1881 nasceva a Vienna Stefan Zweig.

Lo ricordiamo con un brano da "Il mondo della sicurezza", tratto da "Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo", nella traduzione di Lavinia Mazzucchetti, Oscar Mondadori.

Se tento di trovare una formula comoda per definire quel tempo che precedette la Prima guerra mondiale, il tempo in cui sono cresciuto, credo di essere il più conciso possibile dicendo: fu l'età d'oro della sicurezza. Nella nostra monarchia austriaca quasi millenaria tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva il garante supremo di tale continuità. I diritti che concedeva ai cittadini erano garantiti dal Parlamento, dalla rappresentanza del popolo liberamente eletta, e ogni dovere aveva i suoi precisi limiti. La nostra moneta, la corona austriaca, circolava in pezzi d'oro e garantiva così la sua stabilità. Ognuno sapeva quanto possedeva o quanto gli era dovuto, quel che era permesso e quel che era proibito: tutto aveva una sua norma, un peso e una misura precisi. Chi possedeva un capitale era in grado di calcolare con esattezza il reddito annuo corrispondente; il funzionario, l'ufficiale potevano con certezza cercare nel calendario l'anno dell'avanzamento o quello della pensione. Ogni famiglia aveva un bilancio preciso, sapeva quanto poteva spendere per l'affitto e il vitto, per le vacanze o per gli obblighi sociali e vi era anche sempre una piccola riserva per gli imprevisti, per le malattie e il medico. Chi possedeva una casa la considerava asilo sicuro dei figli e dei nipoti; fattorie e aziende passavano per eredità di generazione in generazione; appena un neonato era in culla, si metteva nel salvadanaio o si deponeva alla cassa di risparmio il primo obolo per il suo avvenire, una piccola riserva per il suo cammino. Tutto nel vasto impero appariva saldo e inamovibile e al posto più alto stava il sovrano vegliardo; ma in caso di sua morte si sapeva (o si credeva di sapere) che un altro gli sarebbe succeduto senza che nulla si mutasse nell'ordine prestabilito. Nessuno credeva a guerre, a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale, ogni violenza apparivano ormai impossibili nell'età della ragione. Questo senso di sicurezza era il possesso più ambito, l'ideale comune a milioni e milioni. La vita pareva degna di essere vissuta soltanto con tale sicurezza e si faceva sempre più ampia la cerchia delle persone che desideravano partecipare a quel bene prezioso. Dapprima furono solo i possidenti a compiacersi del privilegio, ma a poco a poco accorsero le masse; il secolo della sicurezza divenne anche l'età d'oro per tutte le forme di assicurazione. Si assicurava la casa contro l'incendio e il furto, i campi contro la grandine e i temporali, il proprio corpo contro gli infortuni e le malattie; si acquistavano pensioni per la vecchiaia e si offriva alle neonate una polizza per la dote futura. Alla fine si organizzarono anche gli operai, conquistandosi paghe regolari e le casse malattia, mentre i domestici si procuravano con i risparmi un'assicurazione sulla vecchiaia e pagavano in anticipo i propri funerali. Solo chi poteva guardare l'avvenire senza preoccupazioni godeva del presente in tutta tranquillità. In questa commovente fiducia di poter chiudere anche l'ultima falla all'irrompere della sorte, c'era, malgrado l'apparente austerità e modestia nel concepire la vita, una presunzione pericolosa. L'Ottocento, con il suo idealismo liberale, era convinto di trovarsi sulla via diritta e infallibile verso "il migliore dei mondi possibili". Guardava con dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, carestie, rivoluzioni, come fossero state tempi in cui l'umanità era ancora minorenne e insufficientemente illuminata. Ora invece non era più che un problema di decenni, poi le ultime violenze del male sarebbero state del tutto superate. Tale fede in un "progresso" ininterrotto e incoercibile ebbe per quell'età la forza di una religione; si credeva in quel progresso più che nella Bibbia e il suo vangelo sembrava inoppugnabilmente dimostrato dai continui, nuovi miracoli della scienza e della tecnica. In realtà, sulla fine di questo secolo di pace l'ascesa generale si fece sempre più rapida e molteplice. Nelle strade rilucevano di notte al posto delle tremolanti lanterne le lampade elettriche, i negozi portavano dalle vie centrali sino alla periferia il loro splendore seducente; già in grazia del telefono si poteva comunicare da lontano, già si poteva correre nei carri senza cavalli con velocità impensate, già l'uomo si lanciava nell'aria attuando il sogno di Icaro. Le comodità della vita passarono dalle dimore signorili a quelle borghesi; non si dovette più attingere l'acqua dal pozzo o dalla fontana, non più accendere con pena il fornello: si diffondeva l'igiene, spariva la sporcizia. Gli uomini diventavano più belli, più sani, più forti da quando lo sport ne irrobustiva il corpo e sempre più raramente si vedevano deformi, gozzuti, mutilati: tutti questi miracoli erano stati compiuti dalla scienza, arcangelo del progresso. Anche nel campo sociale si avanzava; di anno in anno venivano concessi nuovi diritti all'individuo, la giustizia veniva amministrata con maggiore senso umanitario e persino il problema dei problemi, la povertà delle masse, non appariva più insuperabile. Il diritto di voto venne concesso a una cerchia sempre più vasta e con ciò anche la possibilità di difendere legalmente i propri interessi; sociologi e professori andavano a gara nello sforzo di rendere più sana e persino più felice l'esistenza del proletariato... Come stupirsi che il secolo si compiacesse dell'opera propria e vedesse in ogni nuovo decennio solo un gradino verso un decennio migliore? Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi; i nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella irresistibile forza conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le divergenze esistenti fra le nazioni o le confessioni religiose avrebbero finito per sciogliersi in un comune senso di umanità, concedendo così a tutti la pace e la sicurezza, i beni supremi.

Oggi, per noi che abbiamo da un pezzo cancellato dal nostro vocabolario la parola "sicurezza", è facile deridere l'illusione ottimistica di quella generazione accecata dal suo idealismo: illusione che il progresso tecnico dovesse immancabilmente avere per effetto un non meno rapido miglioramento morale. Noi che nel nuovo secolo abbiamo imparato a non lasciarci più sorprendere da alcuno scoppio di bestialità collettiva, noi che dal domani aspettiamo ancor più atroci eventi che dall'ieri, siamo ben più scettici circa la perfettibilità morale degli uomini. Noi fummo costretti a dar ragione a Freud, allorché egli riconobbe nella nostra cultura e nella nostra civiltà solamente un sottile diaframma, che in ogni momento può essere sfondato dagli impulsi distruttivi del mondo sotterraneo, e noi abbiamo dovuto a poco a poco abituarci a vivere senza un saldo terreno sotto i piedi, senza diritti, senza libertà, senza sicurezza. Da un pezzo abbiamo rinnegato per la nostra esistenza la religione dei nostri padri, la loro fede in una ascesa rapida e perenne dell'umanità. A noi, così crudelmente illuminati, quell'ottimismo frettoloso appare banale di fronte a una catastrofe, che con un solo colpo ci ha rigettato indietro di un millennio sulla via degli sforzi umanitari. Ma se anche i nostri padri obbedivano soltanto a un'illusione, essa era ben più meravigliosa ed eletta, più umana e più feconda che le parole d'ordine di oggi. E c'è qualche cosa in me che misteriosamente, a onta di ogni esperienza e di ogni delusione, non riesce a staccarsi totalmente da quell'illusione. Quello che un uomo ha assorbito durante l'infanzia nel proprio sangue, dall'aria del suo tempo, rimane in lui. E malgrado quanto ogni giornata mi urla nelle orecchie, malgrado tutto quello che io stesso e infiniti compagni di destino hanno conosciuto di avvilimenti e di sventure, non riesco a rinnegare totalmente la fede della mia giovinezza: che un giorno, cioè, malgrado tutto, la grande ascesa debba riprendere. Anche dagli abissi dell'orrore nel quale noi oggi ci muoviamo, semiciechi, a tastoni, con l'animo sconvolto e dilaniato, io torno pur sempre ad alzare lo sguardo verso le antiche costellazioni che scintillavano nel cielo della mia infanzia e mi conforto con la fede innata che un giorno questa nostra ricaduta debba apparire soltanto un intervallo nel ritmo eterno dell'eterno progredire.

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