“In
 piazza Granda, xe un monumento, de Carlo VI del mileseizento”. Con 
questo vecchio distico sull’aria di Mikez e Jakez, i triestini danno una
 volta di più prova di conoscere maluccio la loro storia patria.
Carlo
 VI d’Absburgo, il signore effigiato sopra questa colonna, che oggi 
ricordiamo, nacque il 1 ottobre del 1685 a Vienna, dove morì soli 55 
anni dopo, il 20 ottobre del 1740. Regnò dal 1711, come imperatore del Sacro Romano Impero; fu anche Re di Napoli, Re di Sicilia, Re di Sardegna, Re di Spagna, Re d’Ungheria, Re di Boemia, Duca di Milano, Parma, Piacenza e Guastalla, titoli ad alcuni dei quali poi rinunciò o dovette rinunciare.
A
 noi, quest’uomo del ’700, interessa per un’azione di governo che fu di 
grande importanza per Trieste, della quale fu signore. Premettiamo che 
qui non si intende prendere a pretesto la celebrazione per alimentare 
dibattiti legati alle scelte politico amministrative, né per riscaldare 
nostalgie e trasfigurazioni mitiche che pure avrebbero dei fondamenti e 
una certa ragion d’essere. 
Noi siamo qui, semmai, per interrogare il passato in merito al futuro di Trieste. 
Come
 parecchi tra i presenti sanno, penso tutti, nel 1719, il 18 marzo, 
appunto, Carlo VI creò il Porto Franco di Trieste, un istituto connesso 
con due atti precedenti, che suggeriscono delle riflessioni. 
Il
 Porto Franco non è stato un’alzata d’ingegno, ma il frutto di una pace.
 A inizio ’700 l’Austria per terra e Venezia per mare contrastavano i 
Turchi. Nel 1717 viene conquistata Belgrado, dal principe Eugenio, un 
Savoia al soldo degli Asburgo, vedete com’è strana la storia, e l’anno 
successivo Vienna e la Sublime Porta firmano un trattato che prevede 
condizioni di favore reciproche per il commercio. Assicurata la pace, 
dunque, si può lavorare, c’è l’ Adriatico che collega il bacino 
danubiano al Medio Oriente e al Nord Africa, e adesso che i due Imperi, 
quello Austriaco e quello Ottomano non sono più in guerra, il canale 
marittimo rappresenta un’ottima opportunità.
Questo
 anche perché non c’è più il blocco di Venezia. La Serenissima in 
precedenza considerava l’Adriatico un proprio possesso, e imponeva 
gabelle alle navi non dirette ai suoi porti. Adesso la coalizione contro
 il turco ha vinto, ma sostanzialmente per merito dell’Austria, per mare
 le cose non sono andate bene. E quindi il doge deve abbozzare quando 
Carlo VI unilateralmente proclama la libertà di navigazione 
nell’Adriatico.
Quindi
 i due atti preparatori sono la Patente di libera navigazione, del 1717,
 e la Pace di Passarowitz, oggi Požarevac, del 1718. Il Porto Franco data di nascita della Trieste moderna, della città, è del 1719.
Il
 tutto avviene in tre soli anni, perché il lavoro, qui, si tiene con la 
pace, e con la libertà dai lacci e laccioli. Abbiamo del resto visto 
quali e quante sofferenze economiche, e non solo economiche, abbiano 
arrecato a Trieste gli strangolamenti del ’900.
Oggi
 fortunatamente abbiamo un’Europa in pace, e una circolazione delle 
persone e delle merci garantita da Schengen. Uso il presente, e spero di
 poter continuare a farlo a lungo, anche se l’Unione europea al momento è
 in affanno.
La
 scelta di Trieste quale sede del Porto Franco non è scontata, non si 
può parlare di città, come abitanti siamo a un terzo di Muggia, come 
abitato c’è solo la città vecchia, uno spicchio del colle di San Giusto 
verso il mare. Il piccolo borgo di pescatori e salinari è in lizza con 
altri siti, pensate, si parla persino di San Giovanni di Duino, forse 
perché sulla direttrice di Gorizia, all’epoca più importante di Trieste.
C’è
 da tener presente un’altra cosa: non è che i triestini ambissero ad 
avere l’istituto del Porto Franco, i poveri aristocratici delle tredici 
casade, temevano – e a ragione – lo stravolgimento che ne sarebbe 
seguito, posto che sarebbe arrivata qui gente più dinamica o più ricca e
 potente di loro. 
Dunque
 sono contrari. In quei giorni i “nobili del moccolo” ragionano sul 
numero di punte che deve avere la stella portata sul bavero dai patrizi 
nel corso della processione del Corpus Domini, un argomento giudicato 
evidentemente di vitale importanza.
Ci
 crede solo Casimiro Donadoni, la cui famiglia peraltro è di origine 
bergamasca: fa rilevare la profondità dei fondali e porta a Vienna una 
rudimentale carta che prova i vantaggi offerti da Trieste.
E allora il Porto Franco si fa. Qui. Vedete il dito di Carlo VI.
Qui.
 Anche nell’affresco del soffitto della Camera di Commercio, già Borsa, 
c’è Carlo, con il dito, forse hanno pensato alla creazione della 
Cappella Sistina.
Ma
 attenzione, non è per un grazioso beneficio dell’Austria, non è perché 
l’imperatore ami svisceratamente Trieste. Non è perché la città sia 
caralcuore.
Questa
 è una cosa da chiarire in modo piano, ma deciso. La Defonta viene 
spesso rievocata in un’aureola di felicità e di affetto per la nostra 
città. Il dato, invece, è meramente tecnico, funzionale.
Nel
 momento in cui Trieste viene scelta per essere lo sbocco a mare e quasi
 la sintesi dell’economia danubiana, è necessario, è logico investire. 
Sono incappati in un errore di carattere sentimentale quelli che hanno 
parlato di città liberata da “le forche e l’armi dell’impiccatore”, di 
“restituzione alla patria naturale”, ma anche quelli che hanno ragionato
 sulla matrigna amorosa e sulla madre snaturata.
Il
 dato identitario a Trieste è complesso. C’è sempre stata, e credo 
permanga, la percezione di una differenza, vissuta in modi diversi. 
Pensiamo
 allo Slataper del “vorrei dirvi”, al Saba che a Firenze si sentiva di 
un’altra specie. Recentemente una parlamentare cittadina, esprimendosi 
un po’ infelicemente ha parlato di “un’altra razza”. E vabbé.
Comunque
 forse è da questa specificità triestina che è derivata l’anima in 
tormento e si sono alimentati i diversi e accesi aneliti nazionali e 
ahimé nazionalistici che qui si sono confrontati e scontrati lo scorso 
secolo. 
Forse
 aveva ragione von Bruck nel dire che a Trieste può esistere solo la 
nazione triestina, indipendentemente dall’appartenenza statuale.
Ma questa è tutt’altra cosa rispetto alla funzionalità.
Trieste o è una città europea, o non è.
Può
 riassumere e servire da tramite agli interessi di un retroterra che non
 coincide con il sistema del suo Paese. Anzi, direi che non ha altre 
opzioni.
Ditemi un centro italiano, e io vi dirò un porto più vicino. Persino da Sgonico si fa prima ad arrivare a Monfalcone.
Ditemi
 un centro mitteleuropeo danubiano, e io vi sfiderò a trovare uno scalo 
che sia più vicino di Trieste. Ci sono Capodistria e Fiume, che hanno 
comunque dei problemi, di natura diversa.
Devo
 ripetermi: nessuno voglia trovare in queste parole allusioni ai 
dibattiti politici o alle formazioni partitiche con cui Trieste ha a che
 fare in questa stagione preelettorale. C’è solo una convinzione 
personale, maturata con gli anni, dall’attenzione alla storia patria e –
 spero – dal buon senso.
Trieste,
 o è un tramite tra est e ovest, tra nord e sud, o non ha un senso, come
 città. Dev’essere conseguentemente aperta, coltivare i rapporti a 360 
gradi. Per un secolo, come detto, è rimasta invece chiusa, soffocata, e 
gli effetti ancora si vedono.
Questa
 è la lezione ci discende da Carlo VI. Il quale, come ho detto, quando 
si attiva su Trieste è mosso da interessi statuali e anche dinastici. 
Investe delle risorse personali nella Compagnia Orientale, che dovrebbe 
essere qualcosa di simile alla leggendaria Compagnia delle Indie 
britannica. Però le cose non vanno bene, tanto che il sovrano, già nel 
1723 fa intervenire lo Stato per acquistarne l’arsenale che era più o 
meno lì, come attesta via dell’Arsenale. La privatizzazione degli utili e
 la socializzazione delle perdite non è nata né è morta nel ’700.
Probabilmente
 è proprio per vedere com’è che il Porto Franco non decolla, che Carlo 
VI viene a Trieste, nel 1728. Scopre, immagino, che non basta una 
patente imperiale, ma che occorrono altre cose, soprattutto le 
infrastrutture. Che verranno, ma ci vorrà del tempo. La via 
Zindendorfia, che oggi consideriamo un budello ripido e disagevole, ma 
che era la via nuova, dei traffici – infatti è stata ribattezzata via 
Commerciale – verrà realizzata appena all’epoca di Maria Teresa, figlia 
di Carlo VI. 
E
 qui va detto che, tra le cose fatte da Carlo VI, la più importante è la
 Prammatica sanzione, che dopo mille anni di legge salica, cioè di 
ereditarietà ai titoli solo per via maschile, consentirà anche alle 
donne di accedere al trono e a Maria Teresa di rivendicare il titolo di 
arciduchessa d’Austria e di regina d’Ungheria. 
Ma dicevamo della visita, che avviene nel 1728. C’è fermento, anche perché Trieste non è attrezzata per l’evento.
Il
 municipio effettua uno stanziamento straordinario per ripulire dal 
letame le vie cittadine, e si noleggiano a Venezia “cento stramazzi e 
linzioli” per l’augusto ospite e il suo seguito, nonché una “felze”, 
imbarcazione degna, perché non si poteva mica usare un bragozzo per 
portare il sovrano in giro sul quel mare che lui aveva dichiarato 
libero. Ma soprattutto si decide l’erezione di una colonna. Questa.
Quasi settant’anni c’era stata un’altra visita imperiale,
quella di Leopoldo I, cui era stato eretto un monumento bronzeo, oggi lo vediamo campeggiare in piazza della Borsa. 
E si decide di onorare Carlo VI con un analogo monumento.
Il
 tempo stringe, si fa preparare la colonna dagli abili picapiere, 
scalpellini di Lokev, Corgnale, e la si fa scendere in città con un 
trasporto eccezionale di 43 pariglie di buoi e 70 uomini. Il viaggio 
richiede tre giorni, e il capitello e il basamento sono portati con un 
convoglio minore: soli 25 coppie di buoi e quaranta uomini.
La
 colonna viene eretta qui, in piazza San Pietro, perché lì c’era la 
Chiesa di San Pietro, e lì il mandracchio, e il mare. Il nome di piazza 
Grande verrà in seguito; poi durante la prima guerra mondiale muterà in 
piazza Franz Joseph, e infine in piazza dell’Unità. Non c’è tempo per 
una statua vera, ne viene realizzata una lignea, dorata, sostituita 
appena nel 1754 da quella attuale.
Dicevamo
 dell’ostilità dei locali, delle casade, al Porto Franco. Di qui 
discende un altro spunto di riflessione, legato al fatto che Trieste è 
stata fatta non dai triestini, ma nonostante i triestini.
A
 livello locale si sono sempre avute prospettive corte, e le decisioni 
sono state prese in altre sedi, più ampie. Nel bene e nel male questo.
Ricordiamo
 che quando Carlo VI arriva, il suo Porto Franco qui, esattamente qui, 
non c’è, perché il municipio non l’aveva voluto. Ci sono i gabellieri, 
alla porta che separava la cittadina, ancora rinserrata nelle mura, dal 
distretto delle saline, il borgo camerale, così chiamato perché 
comperato con moneta sonante dalla Camera aulica di Vienna, proprio per 
disporre di una zona cui attribuire la franchigia doganale. 
Oggi
 quella parte della città si chiama Borgo Teresiano, perché a un certo 
punto Maria Teresa deciderà che Trieste è troppo importante per lasciare
 che se ne occupino i triestini, e con un gesto d’imperio, dispotico, se
 vogliamo, subìto, farà abbattere le mura e costringerà la città vecchia
 ad assorbire il Porto Franco, imponendo però l’inclusione nel Consiglio
 di due esponenti della Deputazione di Borsa. 
Così
 ci penseranno i nuovi cittadini, la ricca nobiltà mercantile, tutta 
gente venuta da fuori, a fare piazza pulita delle asfittiche casade, ad 
assumere il governo cittadino, e a fare la fortuna di Trieste.
Concludendo,
 ricordiamo Carlo VI con riverenza e con riconoscenza, consapevoli però 
del fatto che le provvidenze e gli investimenti qui fatti si legano alle
 necessità di un sistema di carattere geopolitico-economico che oggi 
valutiamo positivamente, perché per alcuni versi ha precorso l’Unione 
europea.
Ricordiamo
 la storia, allora per guardare al domani della città, senza 
arroccamenti gretti e senza timori verso i cambiamenti. Proiettando le 
opportunità della nostra Trieste in quella dimensione più ampia e aperta
 che l’infausto Novecento le ha precluso e che oggi, in un contesto 
internazionale favorevole, si può positivamente riaprire e sviluppare. 
Grazie.
Luciano Santin.
Trieste/Trst/Triest 18.3.2016 

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