Gli Jurcev ex A.U. Una gita a Lipica.

Sv. Ivan/San Giovanni, 1910

Moto è vita: per la gita di domenica 5 aprile 2020 faccio un viaggio nel tempo e propongo la descrizione di una escursione dal rione di San Giovanni a Lipica che quattro amici fanno una domenica di settembre del 1913.
Qui trascrivo integralmente il quinto capitolo della prima edizione “Gli Jurcev ex A.U.”, di Nino Di Giacomo (1920-1989) stampato nella tipografia Bertoncello di Cittadella (Padova) nell’anno 1973 a cura di Rebellato Old Editore.
Questo romanzo è la saga della famiglia triestina di origine slovena dell’autore (niente a ché vedere con la famiglia del dott. Giacomo Jurcev di origine dalmata).
Nino Di Giacomo - nato a Trieste nel 1920 dal negoziante Antonio Jaklić (italianizzato in Di Giacomo) e da Maria Pia Lapagna – studia a Trieste fino alla maturità classica conseguita al Liceo "Dante Alighieri" (fu scolaro di Giani Stuparich). Si laurea in Scienze Politiche nel 1943 a Firenze e nel 1951 prende la seconda laurea in Giurisprudenza a Milano.
E’ tra a i fondatori del Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste (1946).
Pubblica racconti e poi il romanzo “Gli Jurcev ex A.U.” (Ed. Cittadella, Rebellato, 1973; e seconda edizione, Trieste, Lint, 1977); postumo invece viene stampato il romanzo “La giovinezza di Ivo”: qui l’autore abbandona l’autobiografia e si concentra sull’occupazione della Jugoslavia da parte degli eserciti italiano e tedesco tra il 1941 e il 1943 scrivendo anche dell’amore tra il protagonista Ivo Giorgi e Maria Luisa (Marilù).
Nino Di Giacomo muore a Trieste nel 1989.

Giulia Stibiel
Tempo di lettura: 8 minuti

Gli Jurcev ex A.U.
Parte prima “Il Grande Impero”
Capitolo V
[estate 1913] gita da San Giovanni a Lipizza

La domenica successiva a quel romantico incontro, Santina si comportò come se nulla fosse accaduto due giorni prima.
Avevano deciso tra Sdravko, Juri, lei e Vesna una gita al maneggio di Lipizza, per godersi l’altipiano un’intera giornata. Era la fine di settembre e la giornata era bellissima.
Con grande sorpresa di Juri, Santina aveva accettato subito l’invito che veniva da Sdravko.
Juri e Sdravko portavano sulle spalle due grandi zaini, pieni di viveri, come per una lunga spedizione. C’era persino una terrina di terracotta bianca, piena di radicchio.
Le donne calzavano stivaletti da gita lunghi fino al polpaccio con le stringhe annodate come calzari romani. Affrontarono il breg di buon passo, ma subito le donne restarono un po’ indietro, ansando. Nel primo tratto si passava tra piccole case basse e lunghe, che verso l’alto si diradavano, per sparire del tutto dopo il sottopassaggio della ferrovia, la Staats-Bahn (ferrovia di Stato), che portava a Vienna.
In quel punto erano già visibili il mare e le navi in rada. Poi superata la strada comunale che portava a Basovizza, il breg diventava un sentiero pietroso, segnato dalle acque piovane e tirava dritto verso la grande spaccatura del monte.
Per Juri, come per i suoi amici, era sempre una gioia l’attimo in cui, superato l’ultimo tratto del sentiero oltre la sella, l’altipiano si spalancava tutto alla vista del visitatore, tra pini e larici sempre più fitti.
L’occhio spaziava allora su macchie di conifere e di querce, apparivano i primi muretti di pietra per dividere i campi, i villaggi raccolti intorno alla chiese come pulcini con la chioccia, e in fondo una fila di colline più alte. All’orizzonte una barriera azzurrina per la lontananza chiudeva la vista: erano le propaggini del monte Nanos.
Sin da ragazzo tutto ciò aveva commosso Juri. Quello era il Carso e da lì cominciava la misteriosa terra degli slavi. La sella era il confine tra i due mondi.
Verso oriente, camminando verso il sole, c’erano Divaccia, S. Canziano, Postumia e Ribnica, la terra dei suoi e Lubiana, che non aveva mai visto, e più lontano Zagreb.
Almeno una metà delle terre dell’Impero era abitata da slavi. Era una cosa che insegnavano a scuola e gli aveva fatto una grande impressione.
Là tutto intorno c’erano prati di erba alta, di un verde cupo, punteggiati di margherite, peonie, campanule, bocche di leone. Il sentiero passava tra muretti di pietra contorta e scavata dalla pioggia, oltre ai quali si apriva di tanto in tanto un rettangolo di terra incredibilmente rossa. A volte il terreno pareva sprofondare in una conca rotonda, la “dolina” (avvallamento).
Le casette basse di Trebče apparivano tra gli ippocastani in lontananza. Si sentiva un suono di campane diffondersi da laggiù annunciando la Messa. Nonostante la calura, l’aria era pura e tersa, tanto diversa da quella che si respirava in città.
Decisero di fare una sosta a Trebče. La trattoria del paese era della vecchia Kurluka, una delle donne che durante la settimana portavano il latte in città.
Mentre le donne e Sdravko si sedevano attorno ad un tavolo di pietra del cortile, sotto un grande tiglio, Juri entrò da padrone in cucina.
C’era un gran fornello di mattoni e tegami fumanti erano disseminati sulle piastre fatte di anelli di ferro concentrici, arrossate dal fuoco.
La Kurluka e le sue donne, col viso di terra cotta per il calore del fuoco, giravano e rigiravano con lunghi arpioni, polli e carne di manzo.
Quando vide entrare Juri, la Karluka si illuminò dal piacere, diventando ancora più rossa e pulendosi le enormi mani in fretta nel grembiule, si precipitò sull’ospite gridando con la sua voce rauca: “Jesus Marija, gospod Jurcev! Ka je novega? (…cosa c’è di nuovo?) e lo toccava e lo palpeggiava come per sentire che era proprio lui.
Juri sorrideva e intanto si guardava intorno con occhio da intenditore. Non gli dispiaceva questo saluto rumoroso che in fondo era un tributo al suo rango di fornitore cittadino.
“En liter vina” (un litro di vino) ordinò rapido. “In pršuta” (e prosciutto). Juri si pentì di aver portato tanta roba con sé. Tutti quei polli e quelle patate in tecia della Kurluka, famose anche in città, lo attiravano.
“Dopo, dopo” disse “e adesso il prosciutto, svelta” e accennò a una manata sul sedere della Kurluka, ma quella si sottrasse agilmente e corse ad un tavolo dove il prosciutto stava infilato in un treppiede, pronto ad essere affettato.
Mentre tagliava lentamente la Kurluka continuava a chiacchierare mettendo rapidamente Juri al corrente degli ultimi avvenimenti di Trebče.
Il parroco Zibic aveva preso una brutta costipazione e doveva stare a letto. La figlia della Cenčurka aveva avuto un altro figlio, il sesto. Suo marito aveva di nuovo i dolori alla schiena e non andava da una settimana nei campi (e qui alzava gli occhi al cielo).
Juri conosceva in gran parte quelle notizie, che durante la settimana gli arrivavano fresche in bottega. Sapeva anche da tempo che le donne lassù valevano assai più degli uomini, che bevevano molto e stavano spesso all’osteria.
Le donne invece erano brave in cucina come sui campi e forti come muli quando portavano in città i grandi vasi di latte.
Erano dure e testarde, come voleva la vita del Carso ma, a trent’anni erano già secche e rugose, avevano le gambe grosse e tozze, il torso piatto e senza seno, le mani ruvide e screpolate dal freddo. Donne dure e testarde, senza eleganza né grazia, come gli ammassi di rocce slavate dal vento e dalla pioggia, che apparivano qua e là tra i cespugli, dalla terra rossa.
Eppure quando quelle donne si sposavano e il sangue slavo andava a fondersi in qualche modo in città ne uscivano figlie svelte e eleganti come puledre, le “mule” triestine! Bastava che fossero allevate con un po’ di cura e senza tanti stenti!
A questo pensava Juri guardando la Kurluka che tagliava con la grossa mano da uomo il prosciutto ma uscendo nel cortile alla vista di Vesna i suoi pensieri si dissolsero nell’aria.
Dopo la sosta camminarono attraverso prati e boschetti fino al maneggio di Lipizza. Le bianche scuderie allineate, con gli stemmi imperiali sulle porte, il recinto delle corse agli ostacoli, la tribuna sotto i grandi tigli recintati da una balaustra in ferro battuto, tutto sembrava disposto in mezzo a prati e boschi per opera di magia.
Fin da bambino, Juri aveva sentito dire dal vecchio Jurcev, che era stato in gioventù a Vienna, che a Lipizza venivano allevati cavalli che poi erano mandati nella capitale, nientemeno che alla Hispanische Reitschule della Hofburg (scuola spagnola di equitazione della Corte).
Quando arrivarono davanti alle scuderie, alcuni ufficiali di cavalleria volteggiavano leggeri tra gli ostacoli.
Stavano rigidi in sella per il busto, i baffi piegati in su agli angoli della bocca, alla moda imperante dell’arciduca Franz Ferdinand, le bianche giacche immacolate sui calzoni neri attillati, con una banda rossa lungo la cucitura.
Erano ufficiali dell’Imperial Regio Esercito, signori dell’Impero e vestivano come il Kaiser Franz Joseph.
Attorno ai cavalieri correvano rossi e accaldati gli attendenti e i palafrenieri che portavano i cavalli dalle scuderie e aiutavano a montare in sella. Qualcuno faceva correre i lipizzani tenendoli per le briglie. I cavalli, agili e lucidi scalpitavano e starnutivano di continuo, gli occhi mobili, inquieti, da spiriti tormentati.
Juri li guardava incantato e pensava a Vienna lontana che non aveva mai visto, dalla quale partivano invisibili dei fili che arrivavano in tutto l’Impero.
“A proposito, signorino, fra poco saremo di leva” sbottò Sdravko dietro di lui.
“Andrai in cavalleria, vero?” disse Santina guardando con ammirazione un capitano dalle lunghe fedine bionde che gli scendevano sulle guance sino agli angoli della bocca.
L’ufficiale volteggiava davanti ai quattro e sembrava non volersi staccare da quell’angolo del recinto.
Di tanto in tanto guardava Santina e Vesna, ma soprattutto la prima sembrava attirarlo.
Juri vedeva gli occhi di Santina dilatarsi e roteare lentamente, mentre la bocca larga ma perfetta di schiudeva sui denti.
“Ecco che fa la civetta” pensò.
Vesna invece sembrava assorta in un suo pensiero, come assente. A lei, quello spettacolo sembrava del tutto indifferente.
Lasciarono Lipizza e s’inoltrarono tra i boschi. Querce giganti e nane, alternate ai tigli, si stendevano a perdita d’occhio, larghi viali curati per i galoppatoi si intersecavano tra gli alberi. Di tanto in tanto, annunciati dallo scalpitio degli zoccoli, passavano i cavalieri. Ufficiali, borghesi con la giubba nera alla cavallerizza, la bombetta in testa, i calzoni attillati nei gambali di cuoio nero. Anche qualche dama faceva la sua apparizione e allora i quattro si fermavano per giudicarla. Le donne usavano l’amazzone, con le grandi gonne pieghettate e stavano di traverso sulla sella, con elegante noncuranza.
“Quanto mi piacerebbe” disse forte Vesna con gli occhi accesi.
“Io no, preferisco un bel landeau” disse ridendo Santina.
In una piccola radura, verde, freschissima, si fermarono. Gli uomini sciolsero gli zaini e deposero a terra i cibi e le bottiglie di terrano mentre le donne stendevano una tovaglia a fiorami, ricamata da Santina e dividevano con calma le porzioni.
Mangiarono con grande appetito il prosciutto della Karluka, il Wienerschnitzel preparato da Santina con uova con radicchio, il goulasch che la vecchia Sustersich aveva cucinato per Sdravko e poi le specialità di Juri.
Intorno c’era un silenzio assoluto, rotto solo dal lamento dei cuculo e dal fruscio di qualche capriolo di passaggio.
Dopo il pranzo una pigra sonnolenza invase Juri mentre, le braccia incrociate sotto la nuca, guardava attraverso il fogliame una nuvoletta bianca errare in cielo. Santina gli accomodò amorevolmente la giacca sotto il capo.
“Deve fare il sonnellino dopo il pranzo” bisbigliò a Vesna guardandolo con aria materna.
Piano piano il suono delle voci degli altri si affievolì e Juri piombò in un sonno profondo. […] Scesero dall’altipiano al tramonto. Dall’alto del breg la città appariva già tutta illuminata.
In rada le navi avevano acceso i lumi sulle coffe degli alberi e sulle murate si scorgevano i fanali rossi e verdi di posizione.

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