Di Zeno Saracino
Il
1957 fu un anno infausto per il mondo della letteratura triestina:
scomparve Umberto Saba, tra i “grandi” nomi; e mancò Virgilio
Giotti. La morte dell'ormai anziano Adolfo Leghissa (18 ottobre)
passò pertanto inosservata; un silenzio da parte di letterati e
giornali che continua tutt'ora, perchè il poeta dialettale,
nonostante si collochi a pieno titolo nella tradizione degli
scrittori centro europei, rimane sconosciuto. Ma chi era Adolfo
Leghissa? Nato il 10 novembre 1875 in una famiglia assai povera,
Leghissa dimostrò sin dall'inizio una spiccata propensione per lo
studio; ma le difficoltà economiche gli imposero un'adolescenza
all'insegna di mille e più lavori: dapprima fabbro, poi musicista e
cantante al seguito di una compagnia di saltimbanchi, infine ritornò
a Trieste dove alternò il grande talento musicale all'impegno in
lavori di ogni giorno.
Seguendo altre strade, impegnandosi in
altri corsi d'istruzione, Leghissa sarebbe diventato un grande
letterato; ma il suo talento, sommato all'inesauribile curiosità,
preferì mescolarsi al popolino di cui annotava comportamenti e
manie, pregi e virtù.
Proprio quest'umanità venata di
ottimismo positivista, vivace e piena di gioia di vivere trapela in
uno dei suoi maggiori lavori di prosa, “Trieste che passa:
1884-1914”. Un inno gaudente a una città-porto oggigiorno
scomparsa, dove Leghissa descrive una variegata umanità di osti e
popolani, di artisti di strada e artigiani. La prospettiva non sale
mai oltre la bassa borghesia, preferendo descrivere la vita di ogni
giorno della Trieste asburgica. Una testimonianza preziosa, perchè
finalmente abbandona le uniformi militari e le redingoti che fin
troppi “austriacanti” adottano nello descrivere una città bella,
ma “morta”. Leghissa, al contrario, quei tempi li ha vissuti in
prima persona e non esista a descrivere mestieri che ha svolto egli
stesso, scene dei quali è stato testimone, usi dialettali che
oggigiorno riconosceremmo come stranianti.
Un
irresistibile popolino emerge dalle pagine di Leghissa; ciascuno con
la sua personalità, i suoi tratti caratteriali, le sue eccezionalità
che si tratti di un tappezziere o di un mendicante.
Questa
molteplicità di usi e costumi di una città nell'ultimo quarto
dell'ottocento ancora multinazionale e multietnica, trova però un
motivo comune: ed è una triestinità ben precisa, descritta da
Adolfo Leghissa con piglio di antropologo:
…
da quest'amalgama biologico proviene quel tipo, tutto particolare,
del triestino – buona pasta fisica e spiccata intelligenza – il
quale però, conviene dirlo, non è sempre di facile malleabilità,
né scevro di stranezze. La sua vivacità tutta italiana,
particolarmente friulana, loquace, cortese, ridanciana, era un po'
temperata da una leggera goccia slava, meno esuberante, ma più
osservatrice e riflessiva. Aveva del tedesco l'amore all'ordine, la
pulizia, il senso della dignità professionale nonché quel po' di
romanticismo e talvolta di spensieratezza che si vuol fosse di marca
viennese (…) Un tempo essere triestino era sinonimo di spirito
evoluto, un po' spregiudicato e mordace, ma disinteressato e
generoso. L'essere vissuto a Trieste costituiva una specie di diploma
d'esperienza che il provinciale amava ostentare, al ritorno in
patria, come una conquista...
Sciovinismo
di chi a Trieste è nato? Nostalgia di tempi ormai passati?
Estremismo idealista?
I meccanismi ingannevoli del rimpianto
sono ben noti; eppure non ci si può non vergognare allo riflettere
come questo significasse – almeno in minima parte – essere
triestino a quei tempi. Come osserva lo studioso Norberto Fragiacomo,
“quanti potrebbero onestamente sottoscrivere, oggi, un giudizio
tanto positivo nei nostri confronti?”.
Eppure, dopo aver
servito dapprima
come soldato, poi come cuoco e operaio nella Prima Guerra Mondiale, è
lo stesso Adolfo Leghissa a confessare il suo sconforto. La
triestinità qui descritta si va evolvendo di pari passo coi tempi,
degenera nelle forme grottesche del primo dopoguerra.
La città,
afflitta da una profonda crisi economica, esplode di fortissime
diseguaglianze che celano il desiderio di un uomo forte che riporti
“ordine”. Disorientate da una modernità priva di punti di
riferimento, le masse si rivolgono a un “padrone”. È
una descrizione sconfortante, ma che dimostra lo sbandamento
economico e morale seguito al conflitto.
… Il carattere del triestino s'andava rapidamente modificando, da romantico sentimentale diventava materialista e arruffone con l'anima sorda e il sentimento superficiale più incline a criticare che a costruire (…) Trieste stava appunto attraversando uno dei periodi forse tra i più torbidi della sua storia, almeno della recente. Gli effetti della grande guerra pesavano sul suo organismo. I postumi di una lunga vita di privazioni, di pericoli, di sacrificio, di forzati godimenti materiali, di affarismo quasi criminale, di guadagni facili e di crolli disperati, avevano creato una psicologia tutta nuova tra noi. La gente cercava di ripagarsi del sofferto con ebbrezze alcoliche e drastiche a mezzo di alcolici e di stupefacenti. C'era la piaga dei cocainomani, per fortuna di breve durata, c'era la piaga dei suicidi con regolarità giornaliera come si fossero messi d'accordo (…) C'erano le grassazioni notturne e i numerosi borseggi diurni; le risse, i molti intossicati d'alcool raccolti sulla pubblica via. La Guardia Medica faceva servizio con doppi attrezzatura e personale, e nell'astanteria dell'ospedale Maggiore un chirurgo stava in permanenza. La città, senza ordine e senza controllo, sembrava andasse alla deriva come una nave sfasciata...
L'analisi
di questa metamorfosi della “triestinità” non dovrebbe portare a
rimpiangere i tempi perduti, ma a domandarsi cosa fare nei confronti
del futuro. In altre parole: quale triestinità vogliamo perseguire?
Quale modello preferire? Adolfo Leghissa ce ne propone uno buono e
uno cattivo; e viene da osservare che oggigiorno siamo un po' l'uno e
un po' l'altro.
Fonti: Norberto Fragiacomo, Adolfo
Leghissa, un triestino alla ventura, in
L'Archeografo triestino : raccolta di
opuscoli e notizie per Trieste e per l'Istria,
serie 4., vol. LXV (CXIII), 2005, p. 461-495
La citazione del “piccolo Leonardo triestino” è stata tratta dal bel saggio biografico di Fragiacomo.
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