12 novembre 1920: il Trattato di Rapallo

 

"Rapallo" di Tone Kralj

 
Di Franco Kanzian 

Il trattato di Rapallo, firmato il 12 novembre 1920, fu un accordo con il quale l’Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni stabilirono i confini dei due Regni e le rispettive sovranità. Esso significava un’annessione italiana dei territori al confine orientale alpino: l’occupazione di Gorizia, Trieste, Pola e Zara. Dopo l'unificazione (1861), l'Italia è emersa nello spazio politico europeo come un paese liberale e un esempio della concezione, allora considerata moderna, ma rivelatasi purtroppo portatrice di tragedie, di idea nazionale. Una parte della borghesia italiana dell'Austria-Ungheria iniziò a considerare il nuovo Stato italiano come la patria a cui unirsi. Questa corrente politico ideologica era chiamata irredentismo.

Nonostante l'adesione alla Triplice Alleanza (l’alleanza tra Austria-Ungheria, Germania e Italia) nel 1882, il Comando supremo dell'Esercito italiano elaborò segretamente un piano di guerra contro l'Austria-Ungheria. Il piano cambiò nel corso degli anni e la principale linea difensiva si spostò sempre più a est. Oltre alla difesa, gli italiani pianificarono anche l'occupazione dei territori austro-ungarici. Il generale Enrico Cosenz pianificò l'occupazione italiana di Vienna, l'occupazione del Tirolo e le battaglie lungo l'Isonzo, da dove, in caso di vittoria sul Carso, avrebbero occupato il bacino di Lubiana e via Pontebba e Predil Klagenfurt. Nel tempo si consolidava l’aspirazione di conquista e di influenza dell’imperialismo italiano nell’Adriatico orientale, nell’area danubiana e nei Balcani.

Con lo scoppio della Prima guerra mondiale, l'Italia dichiarò la sua neutralità, uscendo dall’accordo di alleanza e iniziò a “giocare” diplomaticamente tra i due blocchi per trarne il massimo vantaggio in termini di territorio. Già nell'agosto 1914 l'Intesa, Francia, Gran Bretagna e l’Impero Russo, le offrì singole aree del Trentino, il territorio della Badia con Ampezzo, Trieste, cosa che non bastava all'Italia. Per l’Austria-Ungheria il Trentino e soprattutto Trieste erano fondamentali per lo sviluppo economico e per gli scambi commerciali. Gli incontri tra la diplomazia italiana e austriaca continuarono anche dopo la firma segreta tra l’Italia e l’Intesa. I nuovi alleati acconsentirono alle richieste italiane e le condizioni ottenute per entrare in guerra furono confermate dall'Accordo di Londra del 26 aprile 1915. Esso prevedeva per l'Italia un confine orientale che, dopo la guerra, avrebbe inglobato il Trentino, il Sud-Tirolo, Gorizia, Gradisca, Trieste, parte della Notranjska fino allo spartiacque tra il Mediterraneo e il Mar Nero, l'Istria, le isole di Cherso/Cres e Lussino/Lošinj. Purtroppo la diplomazia non prese in considerazione l’esistenza di più di un milione tra sloveni e croati che furono strappati ai propri territori etnici.

L'accordo inoltre, non conteneva alcun obbligo per l'Italia nei confronti delle minoranze etniche, nonostante le continue promesse ricevute a livello diplomatico anche durante il conflitto. L'Italia, tra i vincitori della prima guerra mondiale, concluse la sua aspirazione di unificazione nazionale, includendo nei suoi confini, oltre agli sloveni delle città e dei centri minori a maggioranza italiana, aree completamente slovene e croate, anche quelle fuori dai confini dell'ex Litorale austriaco. Tra le varie etnie che vivevano nel territorio, l’occupazione italiana provocò reazioni contrastanti. Dopo il crollo dell’Austria-Ungheria, molti dei suoi sudditi fedeli, ora senza una Patria, furono costretti a fare delle scelte; gli sloveni e i croati scelsero di far parte del Regno SHS. Il nuovo confine dell'Adriatico settentrionale, definito dal Patto di Londra del 1915 e confermato principalmente dal Trattato di Rapallo (12 novembre 1920) che correva lungo lo spartiacque tra il Mar Nero e l'Adriatico, strappò un quarto del corpo nazionale alla propria madrepatria (327.230 sloveni secondo il censimento austriaco del 1910), 271.305 secondo il censimento italiano nel 1921, 290.000 secondo le stime di Carlo Schiffrer. L’aumento di numero della popolazione slovena in Italia non influenzò in alcun modo lo status giuridico degli sloveni veneti (circa 34.000 secondo il censimento del 1921) che vivevano sotto l'Italia dal 1866 e che le autorità italiane trattavano come definitivamente italiani e quindi non concedendo loro alcun diritto di tutela etnica. 


Già prima della determinazione del confine italo-jugoslavo, le autorità di occupazione e i nazionalisti locali avevano saldamente il controllo sugli sloveni e i croati favorevoli all'adesione alla Jugoslavia. Il controllo dei cittadini considerati non allineati al nuovo potere, veniva attuato adottando la violenza squadrista o con una serie di misure restrittive come lo scioglimento delle amministrazioni comunali e i consigli nazionali. Le autorità italiane limitarono la libertà di associazione, sottoponendo le persone alle sentenze dei tribunali militari, imprigionando i reduci di guerra, internando o espellendo i membri del ceto intellettuale sloveno e croato. Questo tipo di politica impedì un ritorno alla vita culturale e politica delle comunità slovena e croata. Allo stesso tempo, le autorità occupanti sostenevano e appoggiavano in tutti i modi le manifestazioni di italianità per influenzare con la propaganda politica i negoziatori nelle loro decisioni.

Un crescente nazionalismo e l’ascesa al potere del fascismo, dichiaratosi unico difensore degli interessi italiani sul confine orientale, dell’antibolscevismo e dell’antislavismo, trovò l’appoggio di una rilevante parte della popolazione. L'incendio del Narodni dom, sede delle organizzazioni slovene, croate, serbe e ceche di Trieste nel luglio 1920, è stato il primo presagio del lungo clima di violenze subite da questo territorio, modello fino al 1914 di convivenza, tolleranza e progresso.

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