10.5.2024: terza rassegna della letteratura austriaca su TRieST(e) e il Litorale

 


Dopo i successi del 2022 e del 2023, riproponiamo anche per quest'anno la rassegna della letteratura austriaca su Trieste e Litorale, che si terrà

venerdì 10 maggio 2024 ore 17:30

al Circolo della Stampa, Corso 13, TS.

Saranno presenti gli autori Katharina Riese (Ach Triest!) e Werner Wintersteiner (Manifesto Alpe-Adria).

La rassegna viene organizzata in collaborazione col Circolo della Stampa di Trieste. Patrocinio di: Radio Capodistria, Literar Mechana, Forum austriaco di cultura Milano, Associazione italia-Austria, Associazione Biblioteca Austriaca UNI UD, il Club tre popoli di Klagenfurt/Celovec e la Società umanistica Histria

 

Grazie alla disponibilità della professoressa Giustina Selvelli, possiamo condividere con i nostri lettori il suo contributo al Manifesto, che di seguito pubblichiamo.

 

Giustina Selvelli

DALLE FRONTIERE PERMEABILI DELL’ALPE-ADRIA ALL’IMMAGINARIO DI UN’EUROPA MULTIPLA


GLI IRRISOLTI NODI „POST-IMPERIALI”

Ad un secolo di distanza dalla fine del primo conflitto mondiale e dallo sradicamento forzato dai nostri territori di principi ed esperienze di identità multipla, plurilinguismo ed ibridità culturale, emergono ancora i nodi irrisolti delle prospettive nazionali, i limiti etici delle nostre società „atomizzate”, e con essi l’urgenza di mettere in critica il nostro passato bellico per nulla sepolto.

La regione Alpe-Adria, che appare come convergenza di „centro” e „margini”, coesistenza intrinseca di elementi di „vicinanza” ed „alterità”, può attraverso azioni necessariamente utopistiche, ma non per questo meno tangibili, contribuire al compito di mantenere viva la fiamma della speranza europea. Può affermare con convinzione, propositività ed iniziative inedite un’apertura all’Altro che incoraggi a superare la visione ristretta dell’appartenenza unica nazionale, nella volontà di riconoscere e valorizzare un patrimonio europeo fatto di radici composite, riconnettendosi allo stesso tempo in maniera sapiente e cosciente alle sue sorti regionali transfrontaliere.

La storia della provincia di Gorizia, in cui sono cresciuta, uno dei cardini portanti dell’Alpe-Adria, è stata segnata per secoli da una lunga ed incancellabile serie di contatti e mescolanze fra le tre famiglie linguistiche germanica, latina e slava, che hanno dato vita ad una varietà di espressioni culturali originali, senza dubbio definibili come „genuinamente europee”.

L’affermazione del concetto depauperante di „stato nazione” e la tragica fine del mondo imperiale asburgico hanno segnato una brusca interruzione di questo rigoglioso percorso esteriore ed interiore, provocando a livello collettivo rimozioni e chiusure, che hanno via via preso piede e legittimazione anche nelle pratiche individuali dei cittadini di questo territorio, seppure non sempre in maniera lineare.

Sono passati ormai più di cent’anni dalla fine di quel mondo imperiale, ma non è esagerato affermare che tutti noi cittadini dei territori confinanti di Carinzia, Friuli Venezia Giulia e Slovenia viviamo quotidianamente immersi nelle conseguenze della prima guerra mondiale: non appena osiamo guardare sotto la superficie, le ferite appaiono infatti ancora fresche. Il paradigma della nostra problematica schermatura è ancorato a quel cruciale momento di passaggio, e alle sue dolorose scissioni post-asburgiche che ci hanno reso monchi del nostro patrimonio storico di molteplicità.

Non deve pertanto sorprendere che il nostro territorio risulti ancora in parte nostalgicamente rivolto verso il suo passato imperiale, attraverso la manifestazione di emozioni e discorsi più o meno consapevoli di recupero di tale dimensione sovranazionale. Il problema è che spesso, paradossalmente, tale inclinazione non esclude il fatto che lo spazio comune venga al contempo „immaginato” secondo una rivisitazione acritica puramente nazionale che esclude dalla sua narrativa le tante minoranze presenti sul territorio, e con queste la compresenza di contributi essenziali da parte di popoli, attori e culture differenti.

Nel nostro inconscio collettivo, insomma, tutto appare ancora fermo a cent’anni fa, in un trauma che non abbiamo ancora saputo superare ma soltanto narcotizzare, una radice amara che avvelena tuttora gli immaginari regionalisti di appartenenza, e contemporaneamente le fondamenta del comune progetto europeo.


A PROPOSITO DI CONFINI...

La provincia di Gorizia costituisce per lo spazio italiano uno dei suoi punti più marginali, una sua „appendice” orientale, lungo cui scorreva la Cortina di ferro, e su cui la storia europea ha beffardamente concentrato alcune delle sue più dolorose contraddizioni. In particolare, penso a quel confine spinoso che ha separato la città di Gorizia dal suo vitale ecosistema nel 1947 in seguito al secondo conflitto mondiale, imponendo l’appartenenza a due opposte sfere ideologiche. Mi vengono in mente le crudeli linee di confine che riuscirono a tracciarsi addirittura sui corpi dei defunti in cimiteri come quello della cittadina di Miren/Merna poco distante, e con queste la follia delle divisioni e frammentazioni vissute nel corso dell’ultimo secolo a causa dell’imporsi e legittimarsi di concezioni identitarie monolitiche ed irrigidenti. Ricordo anche il cimitero austroungarico di Nova Gorica, in cui è possibile leggere nomi di abitanti di almeno quindici nazionalità diverse del defunto impero, e quello ebraico di Rožna Dolina/Rosenthal/Valdirose, inestimabile testimonianza della presenza di comunità minoritarie etno-religiose di questa regione liminale. In tale contesto, sapere valorizzare la varietà dei monumenti (multi)culturali del nostro passato in maniera transfrontaliera e portare avanti strategie di riconoscimento a livello pubblico delle nostre „alterità” rappresenta sicuramente uno dei modi più appropriati per esprimere i principi di rispetto e di pace nell’ampio territorio dell’Alpe-Adria.

La storia recente della nostra regione comune è stata contraddistinta nei suoi momenti più importanti dall’erezione e smantellamento di svariati confini. Questi, proprio in quanto costruzioni umane artificiali, sono tuttavia in grado di innescare delle dinamiche preziose di resistenza all’ideologia statale monoetnica, mettendo abilmente in discussione e talvolta invalidando la sua affermazione ed autorità. Sui confini si depositano ed accumulano tutte le contraddizioni più visibili dei relativi paesi, e proprio per questo motivo costituiscono delle zone affascinanti che danno vita a forme di sincretismo, nonché di creatività culturali alquanto peculiari. Le attività umane che si svolgono lungo le aree di frontiera non solo arricchiscono il potenziale interculturale dei loro abitanti, ma contribuiscono a mettere in discussione le fondamenta teoriche stesse dello stato-nazione e dell’appartenenza identitaria „esclusivista”. Nonostante la sua demarcazione prevalente di chiusura e delimitazione di territori, il confine può così assumere il significato opposto, ovvero quello di apertura, di chiave per la scoperta di altri mondi possibili.


UNA QUESTIONE DI RIZOMI

L’Alpe-Adria può essere da diversi punti di vista considerato come il cuore dell’Europa, il suo nocciolo pulsante, essendosi rivelato spesso come un accurato sismografo dei suoi sommovimenti interiori. In virtù di tale particolarità, i suoi territori devono portare avanti la missione solidale della frontiera da mantenersi inevitabilmente aperta, un paradigma di incontro ed incrocio fra gli assi Nord e Sud, Est ed Ovest del Continente.

Spetta a noi il compito fondamentale di rendere i suoi paesaggi umani e naturali permeabili e fertili, sintonizzandoci sulla lunghezza d’onda dei suoi percorsi rizomatici, secondo la nota distinzione elaborata da Deleuze e Guattari (1997) tra la nozione di radice e quella di rizoma. Se la singola radice si impone annientando tutto ciò che la circonda, il rizoma è al contrario quella che si estende verso l’incontro con altre radici e origina culture caratterizzate da flussi di eterogeneità.

Attraverso tale concezione, condizione base per l’affermazione di principi di pace, dialogo e convivenza in questi luoghi irriducibilmente complessi, è possibile concepire un futuro diverso per l’Europa, distante da quello che ne prevede la segmentazione in unità isolate, frammentate e non comunicanti. Le radici del nostro continente e dei suoi attuali stati nazionali sono ben più ricche e varie di quanto le versioni ufficiali vogliano effettivamente riconoscere. Si tratta appunto di radici rizomatiche, che si intrecciano fra di loro abilmente seppure non sempre visibilmente, in una logica di contatto in cui ciò che conta non è l’inizio o la fine del percorso, bensì la molteplicità delle radici secondarie che danno vita a sviluppi organici successivi.


L’IMPORTANZA DEI MARGINI

Per individuare gli elementi con cui rifondare un’etica comune del dialogo e dell’inclusione si rivela utile spostare il focus dell’attenzione sul versante della cosiddetta periferia, o sui „margini”, come terreno privilegiato di interazione e di decostruzione dell’unicità del centro. Per essere consapevoli di quanto estese siano le nostre radici rizomatiche ed essere in grado di riconoscere e valorizzare la diversità che caratterizza la nostra storia, è indispensabile mettere in atto una particolare procedura epistemologica: è infatti necessario dimostrare di sapere „restare ai margini”, senza privilegiare in maniera assoluta un solo fenomeno umano, bensì coltivando un profondo interesse per il più gran numero di identità, lingue e culture possibili.

Appare così importante sapere rapportarsi a tali forme di diversità culturale empatizzando con esse, evitando di concepirle in maniera esclusivista, tentando invece di problematizzarle e guardarle con occhio esterno da una prospettiva più ampia e consapevole.

Allargare gli orizzonti individuali e nazionali significa così aprire le porte a qualcosa fino a prima nascosto che, perturbando la nostra fissità culturale, ci svela un nuovo aspetto di noi stessi, rendendoci esplicita l’estraneità nella familiarità. La prospettiva che consente tale processo è quella in cui la singola radice non trova spazio per crescere, poiché il concetto stesso di radice non è sufficiente a rappresentare ed esprimere la molteplicità di influenze ed esperienze del passato e le relative diramazioni nel presente. Solo l’identità non centralizzata del marginale ci permette di sfuggire alle logiche omogeneizzanti del nazionale e all’impoverimento del singolare, rendendoci in grado di ascoltare il prossimo e portare avanti pratiche ecologiche di dialogo, coltivando l’orizzonte della frontiera permeabile. Gli spazi dell’Alpe-Adria sono infatti luoghi di incontri culturali e radici multiple, in cui le definizioni nazionali contano solo superficialmente rispetto alla durata delle storie multiculturali precedenti.


SUL PLURILINGUISMO

In relazione alla metafora del rizoma, emerge in particolare il valore immenso, concreto e simbolico delle pratiche linguistiche, la realtà autoctona del plurilinguismo come forma di rispetto ed apertura all’identità multipla. Chi riesce a padroneggiare lingue diverse possiede un privilegio enorme e allo stesso tempo si fa carico di una responsabilità sociale estremamente alta: spetta a lui/lei infatti il compito di mediare fra culture diverse, tradurre pensiero e culture altrui attraverso la propria lingua, contribuendo a rendere manifeste le ulteriori potenzialità del proprio codice culturale.

L’importanza è quella di non ignorare la presenza di altre lingue, avendo invece la percezione che queste esistono e ci influenzano continuamente. Non si tratta semplicemente di una questione di conoscenza delle lingue, bensì più propriamente di una questione di „immaginario” sulle lingue, e così sull’identità (Glissant 1998).

Imparare le lingue dei paesi vicini si pone come una risorsa etica di riconoscimento di un contesto naturalmente multiplo, e di una vocazione per il pluralismo linguistico, manifesta per diversi aspetti nelle zone di confine e di incontro degli ex imperi multietnici.


CONCLUSIONI „ECOLOGICHE”

L’Alpe-Adria incarna una sorta di Europa in miniatura, un mosaico di popoli, culture, e risorse inevitabilmente intrecciati fra di loro. Dopo cent’anni di ferite ancora non lenite, al passo del valzer interrotto, risuonano come moniti i rimbombi di due Sarajevo (l’attentato del 28 giugno 1914 e l’assedio della città fra il 1992-1996) a marcare un ciclo di storia ancora fremente. Su di noi grava il peso morale di essere abitanti di stati successori di quella monarchia danubiana che ancora non smette di sussurrarci illusioni spezzate dai frammenti rimasti che popolano i nostri scenari

tabuizzanti, tanto post-imperiali quanto goffamente nazionali.

Nel ricostruire le basi di un dialogo comune per la pace sulle ceneri della nostra storia irrisolta, c’è ancora molto lavoro da fare, in particolare un grande processo di avvicinamento tra Est ed Ovest del continente. C’è bisogno ora come mai di un modello genuino di identità locale, regionale, e allo stesso tempo transregionale, europea, internazionale, che si faccia portatrice di un messaggio di resistenza alla negazione, alla rimozione, alla manipolazione dell’immaginario e alle tendenze globali verso la spersonalizzazione ed omogeneizzazione. Dobbiamo sforzarci di ripristinare una località cosciente, una transfrontalierità vissuta e pregnante, caratterizzata da pratiche ecologiche in senso ampio del concetto: dobbiamo ridiventare ecologicamente coscienti anche imparando a tessere nuovamente le quotidianità di coesistenza intra- ed inter-comunitarie dei nostri antenati, secondo una visione relazionale di integrazione e connessione delle componenti costitutive i nostri spazi di diversità culturali e naturali.

In tale visione, è auspicabile pertanto non solo l’abolizione definitiva delle frontiere interne fra i nostri stati, bensì anche il recupero di un’intelligenza „olistica” che ci renda nuovamente in grado di essere „locali” e sapienti, riconoscendoci vicini, comunicando nelle lingue autoctone senza tuttavia smettere di aprirci anche a quelle nuove.

Valorizzare il patrimonio di diversità culturale di questi luoghi significa infatti anche riconoscere l’importanza dei contributi dati dalle comunità di più recente immigrazione, e dalle persone ancora in arrivo come i richiedenti asilo, con l’inclusione delle loro voci nella costruzione di una visione naturalmente integrativa e pacifica, di autoconsapevolezza del nostro passato di migranti, rifugiati, sfollati, proprio a causa delle guerre che hanno così tanto segnato i nostri luoghi. Solo così sarà possibile dare vita a nuove forme di elogio del multiculturalismo e dell’interculturalità, di accoglienza e riconoscimento delle minoranze, in opposizione alle interpretazioni brutali e tragiche dell’identità che questi luoghi hanno purtroppo saputo produrre.


BIBLIOGRAFIA

Bateson, Gregory (1977): Verso un’ecologia della mente. Milano: Adelphi.

Deleuze Gilles/Guattari, Felix (1997): Rizoma. Millepiani. Capitalismo e schizofrenia. Roma: Castelvecchi.

Glissant, Édouard (1998): Poetica del diverso. Roma: Meltemi.


Giustina Selvelli, nata nel 1984 a Trieste, antropologa e linguista, è ricercatrice post-doc esperta di minoranze etnolinguistiche, diaspora e multilinguismo dell’area del sud-est europeo presso il Dipartimento di Analisi Culturale dell’Università di Klagenfurt. Ha svolto periodi di ricerca in Bulgaria, Serbia, Turchia, Grecia, Armenia, ed insegnato presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, la Yildiz Technical University di Istanbul, l’University of the Aegean a Mytilini. Ha pubblicato contributi giornalistici per le testate East Journal, Osservatorio Balcani Caucaso, Mediterranean

Affairs, DinamoPress e tre sue poesie sono apparse sull’ „Enciclopedia della poesia contemporanea”, Vol. 6, pubblicata dalla Fondazione Mario Luzi nel 2015.



Giustina Selvelli

VON DEN DURCHLÄSSIGEN GRENZEN DES ALPEN-ADRIA RAUMS ZUR VISION EINES MULTIPLEN EUROPAS


DIE UNGELÖSTEN „POST-IMPERIALEN“ KNOTEN

Ein Jahrhundert nach dem Ende des Ersten Weltkriegs und der erzwungenen Auslöschung von Prinzipien und Erfahrungen multipler Identitäten, Mehrsprachigkeit und kultureller Hybridität in unseren Territorien tauchen die ungelösten Knoten nationaler Perspektiven, die ethischen Grenzen unserer „atomisierten“ Gesellschaften erneut auf, und mit ihnen die Dringlichkeit, unsere nach wie vor sehr gegenwärtige Kriegsvergangenheit kritisch zu betrachten.

Der Alpen-Adria Raum, der als Konvergenz von „Mitte“ und „Rand“, als eine intrinsische Koexistenz von Elementen der „Nähe“ und des „Andersseins“ erscheint, kann durch Aktionen, die notwendigerweise zwar utopisch, aber deshalb nicht weniger greifbar sind, dazu beitragen, die Flamme der europäischen Hoffnung am Leben zu erhalten. Er kann mit Überzeugungskraft, konstruktiven und beispiellosen Initiativen für eine Offenheit gegenüber dem Anderen eintreten, welche die enge Sichtweise auf die Zugehörigkeit zu einer einzelnen Nation überwindet, in der Absicht, ein vielschichtige Wurzeln umfassendes europäisches Erbe anzuerkennen und aufzuwerten, und gleichzeitig klug und bewusst wieder an das eigene regionale grenzüberschreitende Schicksal anzuknüpfen.

Die Geschichte der Provinz Görz, in der ich aufgewachsen bin, einer der Angelpunkte des Alpen-Adria Raums, ist seit Jahrhunderten von einer langen und unauslöschlichen Reihe von Kontakten und Vermischungen zwischen den germanischen, lateinischen und slawischen Sprachfamilien geprägt, die zu einer Vielzahl von ursprünglichen kulturellen Ausdrucksformen geführt haben, die zweifellos als „echt europäisch“ bezeichnet werden können.

Die Behauptung des schwächelnden Konzepts des „Nationalstaates“ und das tragische Ende der kaiserlichen Welt der Habsburger markieren eine abrupte Unterbrechung dieses blühenden äußeren und inneren Weges und führten auf kollektiver Ebene zu Trennung und Ausschluss, die sich auch in den individuellen Praktiken der Bürgerinnen und Bürger dieses Gebiets allmählich, wenn auch nicht immer linear, etabliert haben und legitimiert wurden.

Mehr als hundert Jahre sind seit dem Ende jener kaiserlichen Welt vergangen. Dennoch ist es nicht übertrieben zu behaupten, dass wir Einwohnerinnen und Einwohner der benachbarten Gebiete Kärnten, Friaul-Julisch Venetien und Slowenien tagtäglich die Auswirkungen des Ersten Weltkriegs erleben: Sobald wir es wagen, unter die Oberfläche zu schauen, erscheinen die Wunden noch frisch. Das Paradigma unserer problematischen Abschirmung ist auf diesen entscheidenden Moment des Übergangs und auf seine schmerzhaften Spaltungen nach dem Zerfall der Habsburgermonarchie zurückzuführen, die uns um unser historisches Erbe der Vielfalt betrogen haben.

Es ist daher nicht verwunderlich, dass unser Territorium zum Teil noch immer nostalgisch seiner imperialen Vergangenheit nachhängt und durch die Bekundung von Emotionen und Reden diese supranationale Dimension mehr oder weniger bewusst wiederaufleben lässt. Das Problem ist, dass diese Neigung oft paradoxerweise die Tatsache ausklammert, dass dieser gemeinsame Raum gleichzeitig im Sinne einer unkritischen rein nationalen Neuinterpretation „imaginiert“ wird, welche die vielen in dem Gebiet lebenden Minderheiten und damit das gleichzeitige Vorhandensein wesentlicher Beiträge verschiedener Völker, Akteure und Kulturen aus seinem Narrativ ausschließt. In unserem kollektiven Unbewussten scheint, kurz gesagt, alles noch wie vor hundert Jahren zu sein, eingefroren in einem Trauma, das wir noch nicht überwinden, sondern nur betäuben konnten, eine bittere Wurzel, welche die regionalistischen Vorstellungen der Zugehörigkeit und gleichzeitig das Fundament des gemeinsamen europäischen Projekts nach wie vor vergiftet.


A PROPOS GRENZEN …

Die Provinz Görz stellt im italienischen Raum eine Randlage, seinen östlichen „Ausläufer“ dar, entlang dessen der Eiserne Vorhang verlief und auf dem die europäische Geschichte ironischerweise einige ihrer schmerzhaftesten Widersprüche konzentriert hat. Ich denke insbesondere an die mit Stacheldraht befestigte Grenze, welche die Stadt Görz 1947 nach dem Zweiten Weltkrieg von ihrem lebenswichtigen Ökosystem abschnitt und ihr die Zugehörigkeit zu zwei gegensätzlichen ideologischen Lebenswelten aufzwang. Ich erinnere mich an die grausamen Grenzlinien, die sogar quer über die Gräber der Friedhöfe wie dem des nahe gelegenen Städtchens Miren/Merna verliefen, und das erinnert mich an den Wahnsinn der Spaltungen und Fragmentierungen, den die Menschen im Laufe des letzten Jahrhunderts wegen der Durchsetzung und der Legitimation monolithischer und starrer Identitätsvorstellungen erlebt haben. Mir fällt auch der österreichisch-ungarische Friedhof von Nova Gorica ein, in dem man Familiennamen von mindestens fünfzehn verschiedenen Nationalitäten des untergegangenen Reiches lesen kann, und der jüdische Friedhof von Rožna Dolina/Rosenthal/Valdirose, ein unschätzbares Zeugnis für die Präsenz ethnisch-religiöser Minderheiten in dieser Grenzregion. In diesem Zusammenhang ist das Wissen, wie man die Vielfalt der (multi-)kulturellen Denkmäler unserer Vergangenheit grenzüberschreitend aufwerten und die öffentliche Anerkennung unserer „Andersartigkeit“ zur Geltung bringen kann, sicherlich eine der geeignetsten Möglichkeiten, die Prinzipien der Achtung und des Friedens im weitläufigen Alpen-Adria Raum zum Ausdruck zu bringen.

Die wichtigsten Momente in der jüngsten Geschichte unserer gemeinsamen Region sind von der Errichtung und dem Abbau der verschiedenen Grenzen geprägt. Diese waren und sind als künstliche und vom Menschen erschaffene Bauwerke dennoch in der Lage, eine wertvolle Dynamik des Widerstands gegen die monoethnische Ideologie des Staates auszulösen, und seine Behauptungen und seine Autorität infrage zu stellen und manchmal auch ins Wanken zu bringen. Grenzen sind Orte, an denen sich die sichtbarsten Widersprüche der jeweiligen Länder alle ansammeln und ablagern, und gerade deshalb sind sie faszinierende Bereiche, in denen ganz besondere Formen des Synkretismus und der kulturellen Kreativität entstehen. Die menschlichen Aktivitäten entlang der Grenzgebiete bereichern nicht nur das interkulturelle Potenzial ihrer Bewohnerinnen und Bewohner, sondern tragen auch dazu bei, die theoretischen Grundlagen des Nationalstaates und die „exklusivistische“ Zugehörigkeit zu einer Identität zu hinterfragen. Obwohl die Grenze vorrangig für Schließung und Abgrenzung von Territorien steht, kann sie auch eine gegenteilige Bedeutung erlangen und für die Öffnung gegenüber anderen möglichen Welten und deren Entdeckung verstanden werden.


EINE FRAGE DER RHIZOME

Der Alpen-Adria Raum kann aus verschiedenen Blickwinkeln als das Herz Europas betrachtet werden, als sein pulsierender Kern, der sich oft als Seismograph erwiesen hat und seine inneren Erschütterungen präzise aufzeichnet. Aufgrund dieser Besonderheit muss in den Gebieten des Alpen-Adria Raums die solidarische Mission der Grenze, die unweigerlich offen bleiben muss, weiterhin gewährleistet bleiben, ein Paradigma der Begegnung und des Schnittpunktes zwischen den Achsen Nord und Süd, Ost und West.

Es liegt an uns, seine menschlichen und natürlichen Landschaften durchlässig und fruchtbar zu machen, indem wir den Verzweigungen der Rhizome folgen, im Sinne der bekannten Unterscheidung, die Deleuze und Guattari (1993) zwischen dem Begriff der Wurzel und dem des Rhizoms getroffen haben. Während sich die einzelne Wurzel durchsetzt und alles um sie herum abtötet, ist das Rhizom im Gegensatz dazu jener Teil, der sich in Richtung der anderen Wurzeln ausdehnt, um sich mit diesen zu verbinden, und Kulturen hervorbringt, die von Strömen der Heterogenität geprägt sind.

Dank dieser Konzeption, einer Grundvoraussetzung für die Bekräftigung der Prinzipien des Friedens, des Dialogs und des Zusammenlebens in diesen unerbittlich komplexen Orten, ist es möglich, sich eine andere Zukunft für Europa vorzustellen, die weit entfernt ist von jener, welche die Aufteilung in isolierte, fragmentierte und nicht kommunizierende Einheiten vorsieht. Die Wurzeln unseres Kontinents und seiner heutigen Nationalstaaten sind viel reichhaltiger und vielfältiger, als die offiziellen Versionen tatsächlich anerkennen wollen. Genau das ist die Definition von Rhizom: Wurzeln, die sich, wenn auch nicht immer sichtbar, geschickt miteinander verknüpfen und dabei einer Logik folgen, in der nicht der Anfang oder das Ende des Weges zählt, sondern die Vielzahl der Sekundärwurzeln, aus denen spätere organische Entwicklungen erwachsen.


DIE BEDEUTUNG DER RANDGEBIETE

Um die Elemente zur erneuten Begründung einer gemeinsamen Ethik des Dialogs und der Inklusion zu identifizieren, ist es sinnvoll, den Fokus der Aufmerksamkeit auf die sogenannte Peripherie oder auf die Randgebiete als privilegierten Boden für die Interaktion und Dekonstruktion der Einzigartigkeit des Zentrums zu verlagern.

Um die Ausdehnung unserer Rhizome und die Andersartigkeit, die unsere Geschichte kennzeichnet, zu erkennen und aufzuwerten, ist es unerlässlich, ein bestimmtes erkenntnistheoretisches Verfahren anzuwenden: Es ist notwendig zu zeigen, dass man weiß, wie man „am Rande bleibt“ und dabei nicht ausschließlich ein einziges menschliches Phänomen privilegiert, sondern ein tiefes Interesse an so vielen Identitäten, Sprachen und Kulturen wie möglich entwickelt. Es scheint wichtig zu sein, zu wissen, wie man mit diesen Formen der kulturellen Vielfalt in Beziehung tritt und ihnen mit Empathie begegnet. Man muss es vermeiden, sie in einer exklusivistischen Art und Weise aufzufassen, sondern versuchen, sie zu problematisieren und sie aus dem Blickwinkel einer breiteren und bewussteren Perspektive zu betrachten.

Die Erweiterung des individuellen und nationalen Horizonts bedeutet also, die Türen für etwas zu öffnen, das bisher verborgen war, wodurch unsere kulturelle Starre ins Wanken gerät, uns ein neuer Aspekt von uns selbst offenbart und uns die Fremdheit in der Vertrautheit deutlich wird. Die Perspektive, die diesen Prozess erlaubt, ist die, in der die einzelne Wurzel keinen Raum zum Wachsen findet, weil das Konzept der Wurzel nicht ausreicht, um die Vielfalt der Einflüsse und Erfahrungen der Vergangenheit und ihre Auswirkungen in der Gegenwart darzustellen und auszudrücken. Nur die nicht-zentralisierte Identität des Marginalen ermöglicht es uns, der Homogenisierungslogik des Nationalen und der Verarmung des Singulars zu entkommen, indem sie uns in die Lage versetzt, anderen zuzuhören, ökologische Praktiken des Dialogs weiterzuentwickeln und dabei den Horizont der durchlässigen Grenze zu pflegen. Die Räume von Alpen-Adria sind tatsächlich Orte kultureller Begegnungen und multipler Wurzeln, in denen nationale Definitionen im Vergleich zur Dauer der vorherigen multikulturellen Geschichte nur oberflächlich zählen.


ÜBER DIE MEHRSPRACHIGKEIT

Die Metapher des Rhizoms zeigt insbesondere den immensen, konkreten und symbolischen Wert der Sprachen in der Praxis und verdeutlicht die autochthone Realität der Mehrsprachigkeit als eine Form der Achtung und Offenheit gegenüber multiplen Identitäten. Wer verschiedene Sprachen beherrscht, verfügt über ein enormes Privileg und übernimmt gleichzeitig die extrem hohe soziale Verantwortung, als Vermittler zwischen den verschiedenen Kulturen und als Übersetzer der Gedanken und Kulturen anderer mithilfe der eigenen Sprache zu fungieren und leistet so einen

Beitrag zum Ausdruck des Potenzials des eigenen kulturellen Kodex.

Die Gegenwart der anderen Sprachen darf keinesfalls ignoriert werden. Vielmehr müssen ihre Existenz und die Tatsache wahrgenommen werden, dass sie einen ständigen Einfluss auf uns ausüben. Es geht nicht einfach nur darum, die Sprache zu beherrschen, sondern eine „Vorstellung“ der Sprache und somit der Identität zu haben (Glissant 2005). Das Erlernen der Sprachen der Nachbarländer stellt eine ethische Ressource für die Anerkennung eines natürlichen multiplen Kontexts und die Berufung zum sprachlichen Pluralismus dar, die in den Grenzgebieten und den Orten der Begegnung der früheren multiethnischen Reiche in vielerlei Hinsicht sichtbar wird.


„ÖKOLOGISCHE” SCHLUSSFOLGERUNGEN

Der Alpen-Adria Raum ist eine Art von Europa im Kleinen, ein Mosaik aus Völkern, Kulturen und Ressourcen, die unweigerlich miteinander verknüpft sind. Hundert Jahre später sind die Wunden noch nicht verheilt und wir hören zu den verstummten Walzerklängen den warnenden Widerhall der Ereignisse von Sarajevo (das Attentat vom 28. Juni 1914 und die Belagerung der Stadt zwischen 1992-1996), die einen Abschnitt einer noch bebenden Geschichte markieren. Auf uns liegt die moralische Bürde, Einwohnerinnen und Einwohner der Nachfolgestaaten jener Donaumonarchie zu sein, die uns noch immer bruchstückhafte Illusionen zuflüstert, die in unseren tabuisierenden Szenarien verbreitet sind, die so sehr post-imperial wie auch auf eine komische Art und Weise national sind.

Die Wiedergeburt des gemeinsamen Friedensdialogs aus der Asche unserer ungelösten Geschichte bedeutet noch sehr viel Arbeit und erfordert insbesondere einen umfangreichen Annäherungsprozess zwischen dem Osten und dem Westen des Kontinents. Mehr als je zuvor brauchen wir ein echtes Modell einer lokalen, regionalen und zugleich überregionalen, europäischen und internationalen Identität, die zur Trägerin der Botschaft des Widerstands gegen die Negierung, die Beseitigung und die Manipulierung der Vorstellungwelt und gegen die globale Tendenzen zur Entpersönlichung und Homogenisierung wird. Wir müssen uns für die Wiederherstellung eines lokalen Bewusstseins, eines gelebten und bedeutsamen grenzüberschreitenden Raums einsetzen, der durch ökologische Praktiken im weitesten Sinne des Konzepts gekennzeichnet ist: Wir müssen erneut ein ökologisches Bewusstsein entwickeln, auch indem wir lernen, wieder an die Alltäglichkeit der inner- und zwischengemeinschaftlichen Koexistenz unserer Vorfahren anzuknüpfen, im Sinne einer relationalen Vision der Integration und der Verbindung der Komponenten, aus denen unsere Räume der kulturellen und natürlichen Vielfalt bestehen.

In dieser Vision ist daher nicht nur die endgültige Abschaffung der Binnengrenzen zwischen unseren Staaten wünschenswert, sondern auch die Wiederherstellung einer „ganzheitlichen“ Intelligenz, die uns wieder in die Lage versetzt, „lokal“ und klug zu handeln, uns als Nachbarn zu erkennen, in den autochthonen Sprachen miteinander zu kommunizieren und dabei weiterhin offen für neue Sprachen zu bleiben.

Die Wertschätzung des Erbes der kulturellen Vielfalt dieser Orte bedeutet auch, die Bedeutung der Beiträge der Gemeinschaften der jüngsten Einwanderung und jener Menschen anzuerkennen, die noch als Asylwerber kommen werden, indem wir ihre Stimmen in die Gestaltung einer natürlich integrativen und friedlichen Vision und in die Selbsterkenntnis unserer eigenen Vergangenheit als Migranten, Flüchtlinge und Vertriebene einbeziehen, gerade wegen der Kriege, die unseren Raum so geprägt haben. Nur so wird es möglich sein, neue Formen der Würdigung von Multikulturalismus und Interkulturalität, der Aufnahme und Anerkennung von Minderheiten zu schaffen, als Gegenpol zu den brutalen und tragischen Interpretationen von Identität, die in diesen Orten leider entstehen konnten.


LITERATUR

Bateson, Gregory (1985): Ökologie des Geistes: Anthropologische, psychologische, biologische und epistemologische Perspektiven. Frankfurt: Suhrkamp.

Deleuze, Gilles/Guattari, Felix (1993): Tausend Plateaus: Kapitalismus und Schizophrenie. Frankfurt: Suhrkamp.

Glissant, Édouard (2005): Kultur und Identität. Ansätze zu einer Poetik der Vielheit. Heidelberg: Wunderhorn.


Giustina Selvelli, 1984 in Triest geboren, Anthropologin und Linguistin, Postdoc-Wissenschaftlerin mit Forschungsschwerpunkt auf ethnolinguistische Minderheiten, Diaspora und Mehrsprachigkeit im südosteuropäischen Raum am Institut für Kulturanalyse der Universität Klagenfurt. Forschungsaufenthalte in Bulgarien, Serbien, Türkei, Griechenland, Armenien. Dozentin an der Universität Ca’ Foscari in Venedig, der Yildiz Technical University in Istanbul, der University of the Aegean in Mytilini. Veröffentlichung von Artikeln in folgenden Zeitungen: East Journal, Osservatorio Balcani Caucaso, Mediterranean Affairs, DinamoPress. Drei ihrer Gedichte wurden in der von der Fondazione Mario Luzi 2015 herausgegebenen „Enciclopedia della poesia contemporanea”, Band 6, veröffentlicht.



Giustina Selvelli

OD PREPUSTNIH MEJA V REGIJI ALPE-JADRAN DO VIZIJE VEČPLASTNE EVROPE


NERAZREŠENI POSTIMPERIALISTIČNI VOZEL

Sto let po koncu prve svetovne vojne in po tem, ko so bile večplastne identitete, večjezičnost in kulturna hibridnost s trdo roko izkoreninjene s tega območja, si še nismo prišli povsem na jasno o nacionalnih ambicijah in etičnih omejitvah naše „jedrske“ družbe ter z njimi povezani potrebi po kritičnem vrednotenju naše vojskovanja polne zgodovine, ki nam je danes še ni uspelo pozabiti.

Regija Alpe-Jadran je istočasno v središču in na obrobju, pozna podobnost in drugačnost. Z izrazito utopičnim, a zato nič manj otipljivim delovanjem lahko na tem območju ohranimo živ plamen upanja v Evropo. Ta regija lahko odigra odločilno in aktivno vlogo pri uresničevanju novih pobud, s katerimi bi bilo mogoče spodbuditi večjo odprtost do Drugega. Na ta način bomo lahko presegli omejujoč občutek pripadnosti eni sami naciji. Končno bomo lahko priznali in ovrednotili svoje evropsko poreklo, ki ga sestavlja skupek tesno prepletenih korenin, obenem pa se bomo zavestno in razumno povezali s čezmejnim območjem, ki nam je tako blizu.

Zgodovino goriške pokrajine, enega temeljev regije Alpe-Jadran, kjer sem zrasla, so zaznamovali številni globoko zakoreninjeni stiki in prepletanja med germansko, romansko in slovansko jezikovno skupino. Tovrstno prepletanje je s seboj prineslo mnoge kulturne posebnosti, ki jih lahko označimo za „pristno evropske“.

Z uveljavitvijo obubožanega pojma nacionalne države in tragičnim propadom Habsburškega cesarstva se je naenkrat zaključilo plodno obdobje zunanje in notranje rasti. Regija Alpe-Jadran je postajala vse bolj zaprta in vse manj enotna, kar se je poznalo tudi v osebnih odnosih med prebivalci tega območja, čeprav so bile včasih spremembe komaj opazne.

Kljub temu da je od razpada Habsburškega cesarstva minilo več kot sto let, lahko mirno rečemo, da prebivalci tega območja, ki zajema avstrijsko Koroško, Furlanijo-Julijsko krajino in Slovenijo, še danes živimo v svetu, ki ga je hudo zaznamovala prva svetovna vojna. Kakor hitro si upamo pogledati nekoliko globlje, v nas zazevajo še odprte rane. Naše miselne paradigme koreninijo ravno v tistem ključnem prehodnem trenutku in v travmatičnih post-habsburških delitvah, s katerimi so nam odvzeli našo dolgoletno večplastnost.

Ne sme nas čuditi, če še dandanes marsikdo žaluje za Habsburškim cesarstvom in si bolj ali manj racionalno in goreče želi ponovne ustanovitve neke nadnacionalne države. Žal so njeni zagovorniki pogosto nekritični, saj si skupni prostor predstavljajo kot nadomestek nacionalne države, ki pa ne upošteva manjšin, prisotnih na tem območju, in ne vrednoti bogastva, ki ga s seboj prinašajo različni narodi, kulture in posamezniki.

Naša kolektivna podzavest si torej vse skupaj predstavlja tako, kot je bilo pred sto leti. Preteklih travm nikoli nismo povsem preboleli, samo ublažili smo jih. Žal ravno travme podžigajo regionalistična gibanja in načenjajo temelje načrta o izgradnji skupne evropske celine.


ČE ŽE GOVORIMO O MEJAH ...

Goriška pokrajina je eno najbolj obrobnih območij italijanske države, tako rekoč njen vzhodni „privesek“ na meji, vzdolž katere je potekala železna zavesa, in prizorišče številnih bolečih konfliktov, ki so se zvrstili skozi zgodovino evropske celine. V mislih imam predvsem bodečo žico, s katero so leta 1947, po koncu druge svetovne vojne, Gorico ločili od njenega naravnega zaledja in to območje ločili na dva ideološko nasprotujoča si tabora. Pomislimo tudi na nesmiselne mejne črte, ki so jih včasih začrtali kar preko trupel pokojnih, kakor na primer na pokopališču v vasi Miren/Merna. Delitve in razdrobljenost, ki smo jih doživeli v preteklem stoletju, so posledica prevlade in legitimizacije enoznačnih in togih identitet. Dobro se spominjam avstro-ogrskega pokopališča v Novi Gorici, kjer počivajo pokojni najmanj petnajstih različnih narodnosti. V Rožni Dolini/Rosenthal/Valdirose imamo tudi judovsko pokopališče, dragoceno pričo prisotnosti etničnih in verskih manjšin v tej obmejni regiji. Na nas je, da ovrednotimo številne (več)kulturne spomenike na tem čezmejnem območju in si prizadevamo, da bi našo „drugačnost“ tudi uradno priznali. Na ta način bomo lahko v celotni regiji Alpe-Jadran najlažje širili vrednote, kot sta spoštovanje in mir.

Najpomembnejše dogodke v sodobni zgodovini naše regije je nedvomno zaznamovalo začrtovanje in rušenje raznih meja. Meje so umetne tvorbe, ki jih postavlja človek. Od nekdaj so simbol narodne enotnosti in pripadnosti, dejansko pa imajo v praksi ravno nasproten učinek in zato ne služijo svojemu namenu. Na obmejnih območjih so jasno vidna nasprotja in razlike med dvema državama. Gre za zelo zanimiva območja, saj sta zanje značilna kulturni sinkretizem in edinstvena kreativnost.

Dejavnosti, ki potekajo ob meji, gotovo povečujejo intelektualni potencial tukajšnjih prebivalcev, obenem pa postavljajo pod vprašaj teoretično podstat, na kateri slonijo nacionalne države in ekskluzivistični občutek pripadnosti. Čeprav mejo največkrat enačimo z zaporami in pregradami, lahko predstavlja čisto nasprotne vrednote. Postane lahko simbol odprtosti in spoznavanja drugačnih svetov.


TESNO PREPLETENE KORENINE

Območje Alpe-Jadran imamo lahko upravičeno za osrčje Evrope in njeno utripajoče jedro, saj je nemalokrat natančen pokazatelj njenih notranjih teženj. Ravno zaradi te njene posebnosti se moramo truditi, da bodo meje znotraj regije ostale odprte, saj bomo na ta način lahko spodbujali stike in izmenjave z vseh koncev evropske celine: od severa proti jugu, od vzhoda proti zahodu.

Na nas je, da na tem območju zagotovimo prost pretok ljudi in spajanje naravnih elementov, skladno s pojmom rizoma, ki sta ga opredelila Deleuze in Guattari (1997) in na ta način nazorno nakazala razlike med korenino in rizomom. Za razliko od ene same korenine, ki prodira v globino in uniči vse, kar jo obdaja, je rizom korenina, ki se prepleta z drugimi koreninami in tvori koreninski splet, iz katerega poganjajo nadvse heterogene kulture.

Tovrsten pristop je nujno potreben, če želimo širiti vrednote miru, dialoga in sožitja na tem tako kompleksnem območju. Na ta način bomo lahko prispevali k drugačni prihodnosti evropske celine in preprečili, da bi razpadla na več ločenih, razdrobljenih in izoliranih enot. Korenine naše celine in nacionalnih držav, ki jo sestavljajo, so neprimerno bogatejše in bolj raznolike od tega, v kar nas prepričujejo njeni uradni predstavniki. Gre namreč za rizome, spretno, včasih komaj zaznavno prepredene korenine, ki iščejo stik z bližnjimi koreninami. Koreninskemu spletu ne moremo določiti začetka ali konca, lahko pa preštejemo število stranskih korenin, iz katerih klije novo življenje.


VLOGA OBROBJA

Če želimo ugotoviti, kateri so temeljni elementi, ki spodbujajo dialog in inkluzijo, moramo svojo pozornost usmeriti k periferiji, k tako imenovanemu »obrobju«, kajti tu poteka večina interakcij in prihaja do razgradnje enoznačnih značilnosti središča.

Za boljše zavedanje obsega lastnega koreninskega spleta in ovrednotenje naše pisane zgodovine moramo slediti natančnemu epistemološkemu postopku. Dokazati moramo, da znamo »ostati na obrobju«, da se torej ne opredeljujemo za točno določeno tipologijo ljudi, temveč gojimo pristno zanimanje za čim večje število identitet, jezikov in kultur. Pomembno je, da sprejmemo kulturno raznolikost in se v njej prepoznavamo. Kultura ni enoznačni pojem, zato moramo nanjo včasih gledati od zunaj; razširiti moramo svoj zorni kot in utrditi svojo zavednost.

Če bomo širili svoja obzorja in obzorja svojih sodržavljanov, se nam bodo pokazale doslej prikrite možnosti. Če bomo sposobni podvomiti v lastna trdno zakoreninjena prepričanja, bomo spoznali nov del samih sebe. Postalo nam bo jasno, da je v vsem, kar je znanega in domačega, tudi kanček neznanega. Do tega zaključka navadno pridemo, ko ena sama korenina nima dovolj življenjskega prostora, ker pojem korenine ne zajema vseh preteklih vplivov in izkušenj ter njihovega razvoja v sedanjosti. Samo utrjevanje necentralizirane identitete prebivalcev na obrobju nam omogoča, da se izognemo nacionalni logiki, ki spodbuja homogenost in ne ceni različnosti. Na ta način lahko prisluhnemo svojemu bližnjemu, spodbujamo dialog in se zavzemamo za prepustno mejo. Za območje Alpe-Jadran so namreč značilni medkulturni stiki in večplastne korenine. V tej regiji, kjer od nekdaj sobivajo pripadniki različnih kultur, je nacionalna pripadnost stranskega pomena.


O VEČJEZIČNOSTI

Prispodoba koreninskega spleta poudarja predvsem neprecenljivo konkretno in simbolično dodano vrednost, ki jo prinaša večjezičnost. Avtohtono večjezičnost lahko dojemamo kot obliko spoštovanja in odprtosti do večplastnih identitet. Kdor govori več jezikov, je nedvomno privilegiran, obenem pa ima zelo veliko družbeno odgovornost, saj postane posrednik med različnimi kulturami in načini razmišljanja. Na ta način razkriva še neizražene možnosti lastnega kulturnega kodeksa.

Nikakor ne smemo omalovaževati jezikov, ki jih govorijo prebivalci območja, na katerem živimo. Zavedati se moramo njihovega obstoja in vpliva na naš razvoj in način razmišljanja. Ne gre zgolj za poznavanje jezikov, temveč za jezikovne predstave, ki oblikujejo našo identiteto (Glissant 1998). Če se učimo jezikov sosednjih držav, s tem na etični ravni priznavamo njihov obstoj v naravno večjezičnem okolju in spodbujamo jezikovno raznolikost. Tovrstna raznolikost je pogosto razvidna v obmejnih regijah in na stičiščih nekdanjih večetničnih držav.


»EKOLOŠKI« ZAKLJUČKI

Regija Alpe-Jadran je nekakšna Evropa v malem: mozaik tesno prepletenih narodov, kultur in virov. Stoletne rane se še niso povsem zacelile. Tempo valčka vselej preglasi odmev dveh sarajevskih napadov (napada na prestolonaslednika 28. junija 1914 in obleganje mesta med letoma 1992–1996). Gre za dogodka, ki sta zaznamovala še ne povsem zaključeno zgodovinsko obdobje. Mi, prebivalci držav, ki so nastale na območju nekdanjega Avstro-ogrskega cesarstva, nosimo moralno breme razblinjenih sanj in globoko zakoreninjenih tabujev, najsi gre za post-imperialistične aspiracije ali za okorne nacionalne ambicije.

Nedvomno nas čaka še veliko dela, če želimo postaviti temelje za medsebojni dialog za mir, ki bo zrastel na pepelu naše še nerazjasnjene preteklosti. Najprej moramo spodbuditi približevanje med vzhodnim in zahodnim delom celine. Poleg tega moramo slediti obstoječim vzorom lokalne, regionalne pa tudi nad-regionalne, evropske in mednarodne identitete. Ustvariti moramo močne identitete, s katerimi bomo lahko kljubovali zanikanju, odpravljanju naših miselnih predstav in manipulacij z njimi ter globalnim težnjam po razosebljanju in homogenizaciji. Potruditi se moramo, da bomo z delovanjem na lokalni ravni zavestno spodbujali pomenljive čezmejne izkušnje v ekološkem duhu (v mislih imam ekologijo v najširšem pomenu besede). Postati moramo vse bolj ekološko ozaveščeni. K temu lahko prispevamo tudi z iskanjem novih priložnosti za sožitje znotraj evropskih držav in med njimi, kakor so to počenjali naši predniki. Medsebojni odnosi morajo temeljiti na integraciji in povezanosti vseh sestavnih elementov našega kulturno in naravno raznolikega območja.

Tovrstna vizija ne zagovarja zgolj rušenja meja med državami v regiji Alpe-Jadran, temveč nas spodbuja, da ponovno razvijemo holistično inteligenco, ki nam bo omogočila, da se spet zavestno osredotočimo na lokalno raven, se zavedamo svojih podobnosti in se sporazumevamo v avtohtonih jezikih, obenem pa ostajamo odprti novim jezikom.

Če bomo znali ovrednotiti kulturno raznolikost na tem območju, se bomo zavedali tudi dragocenega prispevka sodobnejših migracijskih valov in migrantov oziroma prosilcev za azil, ki še prihajajo v naše kraje. Njihova prisotnost bo nedvomno prispevala k bolj odprti in bolj miroljubni družbi. Vodila nas bo k spoznanju, da smo zaradi vojn, ki so tako močno prizadele naše kraje, tudi mi nekoč bili priseljenci, begunci, razseljenci. Samo če bomo to ozavestili, bomo lahko spet cenili večkulturnost in medkulturnost, priznavali in sprejemali manjšine ter odklanjali identitete, ki so produkt tragičnih in nasilnih dogodkov iz polpretekle zgodovine.


LITERATURA

Bateson, Gregory (1977): Verso un’ecologia della mente. Milano: Adelphi.

Deleuze Gilles/Guattari, Felix (1997): Rizoma. Millepiani. Capitalismo e schizofrenia. Rim: Castelvecchi.

Glissant, Édouard (1998): Poetica del diverso. Rim: Meltemi.


Giustina Selvelli, rojena v Trstu leta 1984. Je antropologinja in jezikoslovka. Trenutno opravlja post-doktorski študij na temo etničnih in jezikovnih manjšin, diaspore in večjezičnosti na območju jugovzhodne Evrope na Oddelku za kulturologijo Univerze v Celovcu. Raziskovalna dejavnost jo je popeljala v Bolgarijo, Srbijo, Turčijo, Grčijo in Armenijo. Predavala je na Univerzi Ca’ Foscari v Benetkah, na Tehniški univerzi Yildiz v Istanbulu ter na Egejski Univerzi v Mytiliniju. Sodelovala je z revijami East Journal, Osservatorio Balcani Caucaso, Mediterranean Affairs, DinamoPress. Tri njene pesmi so bile objavljene v enciklopediji sodobne poezije Enciclopedia della poesia contemporanea, XI. zvezek, ki jo je leta 2015 izdala Fundacija Mario Luzi.

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